Rd Congo: 130 morti nel Nord Kivu. L'esperto: lucro dietro le violenze
A nord-est di Goma, capoluogo della provincia del Nord Kivu, sono morte oltre 130
persone, in scontri tra ribelli del Movimento 23 marzo e soldati regolari. I vescovi
del Congo hanno più volte chiesto ai leader politici africani di mettere fine alla
guerra che insanguina il Paese e di “lavorare non per i propri interessi, ma per il
bene di tutti”. Massimiliano Menichetti:
Il sangue non
smette di scorrere nella provincia del Nord Kivu. L’ultimo bilancio di un conflitto
che non sembra vedere la fine è di 130 morti. Le violenze sono riprese a Mutaho a
circa 12 km a nordest di Goma: 120 ribelli del cosiddetto Movimento M23, che lottano,
a loro dire, per lo scarso impegno del governo nel Paese, hanno perso la vita contrapponendosi
alle truppe regolari, che denunciano dieci perdite. Secondo fonti locali i rivoltosi
e i loro alleati ruandesi da settimane stanno rafforzando le proprie posizioni nella
zona. Le truppe di Kinshasa comunque avrebbero costretto alla ritirata i miliziani
verso Kibati. Migliaia i civili costretti ad abbandonare le proprie case. Secondo
la Croce Rossa 65 mila congolesi hanno cercato rifugio in Uganda. In questo scenario,
i vescovi africani hanno lanciano un forte appello ai leader politici perché “si metta
fine alla guerra che insanguina la Repubblica Democratica del Congo” e perché “lavorino
non per i propri interessi, ma per il bene di tutti”. “Sei milioni di morti in vent’anni”,
sottolineano i presuli che invitano “tutte le parti coinvolte” a trovare vie per la
pace.
Per un commento sulla situazione nel Paese, Massimiliano Menichetti
ha intervistato Jean-Leonard Touadi, politico e accademico italiano, originario
del Congo Brazzaville:
R. – E’ un conflitto
che via via si è allargato dall’epicentro dell’est, fino a guadagnare porzioni sempre
più ampie del territorio orientale della Repubblica Democratica del Congo. Sono mutati
i soggetti, con sigle diverse, però le modalità di questo conflitto restano le stesse:
centralità dell’estrazione delle materie prime preziosissime, che è il cuore del conflitto,
ingerenza degli Stati vicini, che non è solo un’ingerenza politica, a sostegno di
queste o quelle altre milizie – gli stessi Stati confinanti hanno economicamente giovato
a questa crisi che dura da tanto tempo – e, terzo elemento, un’incapacità del governo
di Kinshasa non solo di controllare il territorio ma di avviare qualunque ipotesi
di dialogo interno tra congolesi ma anche un accordo con i propri vicini.
D.
– In questo contesto, sembrano anche in difficoltà i caschi blu presenti nel Paese?
R.
- La presenza Onu, in assenza di un quadro politico chiaro, sta diventando essa stessa
un problema piuttosto che una soluzione e alla fine sono le popolazioni che vagano
da un territorio all’altro, subendo stupri per quanto riguarda le donne, la piaga
dei bambini soldato per i più piccoli e tutte le altre devastazioni umane.
D.
– I vescovi africani intervengono e ribadiscono ai politici: non dovete lavorare per
i vostri interessi, ma per il bene di tutti…
R. – Le autorità religiose sono
intervenute in più di un’occasione. Devo dire che la Chiesa ha avuto un ruolo di supplenza
importante, non solo stando vicino alle persone, alle popolazioni, dando assistenza,
ma anche nel far riecheggiare ciò che sta avvenendo all’esterno. Questo ennesimo appello
dovrebbe incitare il governo congolese a riprendere un minimo di iniziativa politica.
Stiamo assistendo a un immobilismo del regime di Kabila, che si sta accontentando,
come quelli che l’hanno preceduto, di gestire ricchezze del Paese, senza assolutamente
badare a un minimo di ricostruzione di un tessuto politico sociale del Paese. L’altra
questione è quella che riguarda i vicini. Secondo tutti gli osservatori, non c’è una
soluzione che si possa trovare semplicemente in Congo senza invitare tutti i Paesi
della regione dei Grandi Laghi in una conferenza internazionale che non debba soltanto
limitarsi a individuare le responsabilità degli uni e degli altri, ma trovare terreni
di cooperazione tra questi Paesi.
D. – Ma iniziative di questo tipo di fatto
si sono tenute, ma non si riesce mai ad arrivare ad una concretezza…
R. – Il
nodo, secondo me, centrale per il quale la guerra si è avvitata e per il quale nessuno
ha interesse a fare cessare questa guerra è che fa comodo a tutti. Fa comodo alle
multinazionali arrivare in piena foresta con gli aerei su piste di fortuna e imbarcare
il coltan piuttosto che l’oro o i diamanti, fa comodo ai vicini poter diventare, senza
nessuno sforzo, le piazze più importanti della compravendita di diamanti e di coltan,
pur non avendolo nel proprio sottosuolo. C’è un’economia di guerra, una specie di
geopolitica del cinismo dove i soggetti non hanno un progetto politico: hanno semplicemente
corposi interessi economici. Quindi, la guerra si svolge in Congo ma le cause e le
soluzioni devono essere trovate a livello dell’Unione Africana. Ma, soprattutto, la
comunità internazionale, che troppo ha lucrato sul sangue e sulle sofferenze dei congolesi,
ha il diritto e il dovere di allestire un processo di pace degno di questo nome.