Siria: ancora decine di morti. L'analista: il Paese a rischio di nuova jihad
Sono oltre 42 i morti in Siria in queste ultime ore, tra cui 6 bambini, uccisi in
un bombardamento governativo sul villaggio di al-Maghara, nella provincia nordoccidentale
di Idlib. Sulla situazione, Marina Tomarro ha intervistato Alberto Ventura,
docente di Storia dei Paesi islamici, all'Università della Calabria:
R. – La tragedia
era assolutamente annunciata. Anzi, più che annunciata, era giù in corso da tempo,
un po’ nell’indifferenza generale. Sostanzialmente, non mi sembra che finora i tentativi
fatti per intervenire in questa guerra civile abbiano dato buoni frutti. Già Kofi
Annan, quando era stato delegato dalle Nazioni Unite per tentare una soluzione pacifica
del conflitto, alla fine si era dovuto ritirare dando comunque delle regole di massima
che erano quelle naturalmente di raccomandare ad entrambe le parti di fare un passo
indietro. Questo passo indietro non è stato fatto e le pressioni internazionali non
sono riuscite finora a combinare nulla. L’ultimo tentativo, nel quale io riponevo
qualche speranza, era l’appello fatto dai due ministri degli Esteri, turco ed iraniano,
di approfittare del mese sacro del digiuno, il Ramadan, per cessare, anche temporaneamente,
le ostilità e da lì ripartire per tentare una mediazione. Anche questo tentativo non
mi sembra abbia dato alcun frutto. Naturalmente, la soluzione non è possibile se non
si fa un passo indietro da tutte le parti. Secondo me, ogni giorno che passa è un
rischio in più, perché nel conflitto poi si inseriscono elementi estranei, come il
jihadismo militante più violento e combattente, che possono alterare la situazione.
D.
– Dall’inizio del conflitto, si calcolano circa centomila morti e quattro milioni
di profughi. Cosa ci si prospetta?
R. – Al momento, è difficile fare delle
previsioni. È certo che nei luoghi dove i profughi si sono rifugiati si comincia a
sentire questo problema. In Turchia, il problema è molto sentito. Ci sono moltissimi
profughi che vengono dalla Siria che si sono stabiliti sul territorio turco. Naturalmente,
il governo turco sta cercando di gestire una situazione piuttosto calda in certe zone.
Soprattutto nelle zone meridionali della Turchia, queste comunità di profughi si fanno
sempre più ampie, e sappiamo poi quanto queste tendano poi ad incistarsi nel territorio
che le ha ospitate, creando delle sorti di ghetti con tutti i problemi che poi questi
comportano. Solo in tempi molto brevi si potrebbe porre fine a questo problema, cioè
con un rientro – anche se graduale, ma sicuro – di queste popolazioni nei loro confini.
Ma finora non sembra proprio vi siano le minime garanzie di sicurezza per far sì che
ciò avvenga. Quindi, non sono molto ottimista sul destino dei profughi siriani in
questo momento.
D. – Intanto, dall’Iran continua anche l’esportazione delle
armi in Siria. Il capo della diplomazia irachena ha chiesto anche l’intervento della
comunità internazionale. Secondo lei, anche questa situazione in che modo potrebbe
evolversi?
R. – Sembra ormai accertato che dal Pakistan e dallo stesso Afghanistan
possano pervenire in Siria milizie che in questo momento è difficile quantificare.
Naturalmente, si parla di alcune centinaia di persone. Non hanno una grande importanza
dal punto di vista strategico ovviamente, perché i numeri sono relativamente piccoli,
però potrebbero avere una grossa importanza dal punto di vista simbolico: fare cioè
del territorio siriano una sorta di nuovo jihad internazionale, ed è quello
che mi pare le forze del terrorismo cerchino di fare in questo momento: continuare
a dare sfogo a questo tipo di militanza islamica violenta e radicale. La situazione
è molto confusa anche tra le forze dell’opposizione, con il tentativo di prendere
in mano il conflitto siriano come scusa per un ennesimo jihad. Abbiamo assistito ad
episodi del genere in Jugoslavia alcuni anni fa, poi l’Afghanistan è stato uno dei
teatri più tragici di questo tipo di interazioni internazionali. E adesso la Siria
potrebbe diventarlo nuovamente.