Progetti per la cura dell'idrocefalo in Africa: l'impegno del neurochirurgo italiano,
Conti
Vivere la propria professione di medico come dono di sé agli altri, offrendo la massima
competenza e ponendo attenzione al rapporto con colleghi e pazienti, rinunciando ad
ogni protagonismo personale. E’ ciò che anima l’attività del dott. Michele Conti,
responsabile del reparto di Neurochirurgia dell’Ospedale S. Maria del Carmine di Rovereto,
in provincia di Trento. A lui si deve poi la realizzazione di numerosi progetti
di formazione del personale medico in diversi paesi dell’Africa come Etiopia, Zimbabwe,
Ghana e Kenya con il sostegno della Provincia autonoma di Trento. Mariangela Brunet
ha raccolto la testimonianza del dott. Conti chiedendogli prima di tutto quali siano
le tecniche da lui adottate nella cura dell’idrocefalo nei bambini. Sentiamo:
R. - Il problema
dell’idrocefalo nei bambini è un problema molto diffuso soprattutto nei Paesi del
Terzo mondo e le tecniche sono rimaste un po’ limitate a quello che si faceva negli
anni ’50 e ’60. Si è compreso però che è necessario fare questa chirurgia quanto prima,
anche con bambini molto piccoli o neonati, e questo ovviamente comporta una preparazione
tecnica maggiore rispetto alla media dei chirurghi nazionali o europei.
D.
– Lei ha una grande esperienza di volontariato in Africa. Cosa ci può dire in proposito?
R.
– Proprio riguardo alla domanda precedente sull’idrocefalo, quello che è stato fatto
è una nuova tipologia di progetto per i Paesi in via di sviluppo - personalmente in
cinque stati africani – dove si sono realizzati dei progetti che non hanno avuto direttamente
lo scopo di aiutare i bambini con questa patologia, ma quello di formare i medici
africani a guarire questi bambini. Quello che io ho fatto per l’Africa è stato contestualizzare
la tipologia di intervento su questa malattia in un Paese del Terzo mondo. Grazie
all’aiuto delle organizzazioni non governative, sentite proprio per questi progetti,
siamo riusciti con la Provincia autonoma di Trento a trovare dei dispositivi a basso
costo in India – dispositivi che possono essere comprati ed autosostenuti in futuro
– però ho messo del mio nell’inventare una nuova tecnica realizzabile con quei dispositivi,
naturalmente avendo poi lo stesso risultato. Questo nuovo modo di vedere la solidarietà
e la cooperazione ha sicuramente aperto dei capitoli inimmaginabili e soprattutto
permesso il buon rapporto con i medici africani, con i politici africani proprio perché
hanno compreso che non c’era la volontà di mettersi a posto la coscienza, ma c’era
la volontà di insegnare la propria professione a loro per consentirgli di salvare
la loro gente. Dopo un primo lavoro in Etiopia, in due anni abbiamo realizzato cinque
progetti di formazione, in cinque stati differenti e l’ultimo progetto fatto con lo
stato del Ghana ha coinvolto tutta la nostra politica locale e quella dello stato
africano.
D. – Nel suo impegno umano e medico ha creato molte reti di relazioni
autenticamente umane ed interprofessionali. Cosa l’ha portato a costruire tutto questo?
R.
– Anche se sono un chirurgo e ci si relaziona con i chirurghi, in realtà quando si
fanno questi progetti si trovano poi relazioni anche con politici, con missionari
e questo ha portato a creare una rete meravigliosa di rapporti tra persone completamente
differenti, sotto ogni aspetto - professionale, religioso, culturale - che però hanno
tutti un unico obiettivo: quello di fare qualcosa di buono. In questo modo si elimina
qualsiasi personalismo. Ognuno di noi non cerca più l’affermazione di se stesso, ma
si rende conto di far parte di un progetto più grande che porta a realizzare qualcosa
che umanamente non è nemmeno pensabile a priori. Riuscire a far sì che le persone
che si operano vadano a star bene, oppure che i colleghi che si formano riescano a
dare il meglio, va al di là del solo fatto di far bene l’intervento, ma è tutto un
rapporto che si instaura con ciascuno. Penso che anche un forte sentimento religioso
sia un perché si fa questo tipo di lavoro.