L'Aquila. Il nuovo arcivescovo, mons. Petrocchi: si riaccenda la speranza per la città
L’Aquila rischia di morire. Ancora risuona l’eco delle drammatiche parole pronunciate
pochi giorni fa da mons. Giuseppe Petrocchi, nuovo arcivescovo del capoluogo
abruzzese, colpito nel 2009 dal sisma. Durante la messa, celebrata per l’inizio del
suo ministero pastorale, in sostituzione di mons. Giuseppe Molinari, che ha lasciato
per limiti di età, mons. Petrocchi ha ricordato le oltre 300 vittime del terremoto,
ha parlato dei segni impietosi della tragedia, delle devastazioni umane e materiali,
ed ha esortato L’Aquila e i suoi abitanti a divenire un inno alla Vita e al coraggio.
Francesca Sabatinelli lo ha intervistato:
R. – Non c’è
alcun tentativo – e non è possibile – di “cosmesi” architettonica, di copertura: chi
va al centro dell’Aquila si rende conto che la città è ridotta in macerie. Questa
immagine non può non rinviare ad un livello se si vuole più profondo di questo disastro,
perché il terremoto non ha solo una valenza geologica. Il sisma non si limita soltanto
a spezzare le case, a interrompere una vita urbana: il sisma tocca anche l’interiorità
delle persone, provoca sussulti interni, timori, traumi. Una buona parte della popolazione
è stata sradicata dai luoghi dove viveva, questo ha significato l’interruzione di
tradizioni, di legami personali che sono stati tranciati. Quindi, il vissuto della
città va guardato anche nelle reazioni che il sisma ha prodotto nella mente, nel cuore
degli aquilani. Questa è gente che ha reagito con grande dignità, con grande forza
d’animo.
D. – Mons. Petrocchi, in questi suoi primi giorni all’Aquila, ha visto,
ha sentito in queste persone ancora la forza e la tenacia?
R. – Certo, anche
se – come succede sempre in queste condizioni – bisogna alimentare la lampada della
speranza, perché nelle persone rischia di diventare lentamente prevalente una rassegnazione
di fronte a una condizione percepita come ineluttabile. Occorre ritrovare le ragioni
per credere nell’avvenire.
D. – Lei ha lanciato un appello, forte: “I prossimi
cinque anni saranno decisivi. Senza segnali nitidi la città non ci sarà più!”. Queste
sue parole sono molto chiare: in che direzione vogliono andare?
R. – Vanno
da un rilievo che io ho potuto fare nell’incontro con le autorità. Mi hanno fornito
dei dati, la cui lettura è immediata: è in atto all’Aquila un esodo, numericamente
robustissimo. Molte persone preferiscono trasferirsi altro, soprattutto sulla costa
abruzzese. Questa, che io ho definito “emorragia demografica”, risulta ancora più
inquietante se si tiene conto che sono ormai molti i giovani che preferiscono partire,
diciamo così, in "esilio" per andare a cercare un destino migliore in altri luoghi.
Se una città perde la risorsa prima che sono i giovani, la città vede oscurarsi l’orizzonte
del suo futuro: è una città che sta perdendo la speranza.
D. – Lei sottolinea
come la rinascita, la ricostruzione dell’Aquila debba partire dall’anima degli aquilani.
Ma questo popolo ha bisogno di un sostegno che arrivi anche da fuori…
R. –
Questa è gente dignitosissima! Non può essere una popolazione questuante: gli aiuti
di cui ha bisogno vanno dati nel segno di una prossimità fraterna e collaborativa.
Bisogna poi che i progetti, che vengono ipotizzati, siano cantierizzati e realizzati,
che inizi quindi la stagione delle inaugurazioni. E’ chiaro, però, che i primi protagonisti
della rinascita degli aquilani, sono gli aquilani. Io ho anche detto che la patologia
più grave che potrebbe colpire questa città è quella della divisione, che determina
polemiche, rivalità, contrapposizioni. Il rischio che si corre è che, frantumandosi
il tessuto relazionale, possano essere incrementati gli individualismi e che il bisogno,
in qualche modo, di recuperare una propria identità avvenga senza tener conto dell’insieme,
senza cioè rimanere dentro il “noi”. Ecco, io vorrei che all’Aquila il buon “noi”
- il buon “noi” Chiesa e il buon “noi” comunità civile - possa rappresentare la forza
più alta e più nobile che consenta a questa città di risorgere.