Suicidio assistito. Pessina: pratica gravissima, chi si sente aiutato non cerca la
morte
Continua ha suscitare scalpore la vicenda del magistrato Pietro D'Amico, che lo scorso
aprile decise di sottoporsi in una clinica di Basilea, in Svizzera, al cosiddetto
suicidio assistito a causa di un male incurabile che la successiva autopsia ha smentito.
Il legale dell'uomo, l’avv. Roccisano, ha denunciato i medici autori della diagnosi
accusandoli di "errore scientifico fatale", che indusse Pietro D'Amico in uno stato
di forte depressione fino al suicidio. Daniel Ienciu ha chiesto un commento
al prof. Adriano Pessina, docente di Bioetica all'Università Cattolica Sacro
Cuore di Milano:
R. – Credo che,
anzitutto, vi sia una peculiarità nella forma del suicidio assistito, perché chi cerca
questa forma in realtà, a differenza dei suicidi in termini classici, cerca in qualche
modo un aiuto: quindi, in questo senso, manifesta implicitamente un desiderio di uscire
dalla situazione di crisi in cui si trova. Per questo, il suicidio assistito è sempre
una forma assolutamente paradossale e gravissima, che dovrebbe essere in qualche modo
vietata. E’ una forma di indifferenza generale, per cui si lascia da sola la persona
nella sua disperazione e anzi si aiuta a coltivare il senso di incapacità di resistere
di fronte alle difficoltà della vita e della malattia.
D. – Guardando al caso
D’Amico, qual è la sua opinione circa il possibile errore di diagnosi che avrebbe
condotto l’uomo al suicidio?
R. – Mi sembra ci siano diversi errori. Il primo
sicuramente è un errore diagnostico, ma poi ci sono un insieme di errori dati dal
fatto che sia lasciata da sola una persona: non la si è supportata psicologicamente,
non la si è aiutata a fare i conti con la presunta situazione clinica. Tutta questa
vicenda mette in luce una dinamica del suicidio assistito come una dinamica di abbandono
delle persone. Anzi, in qualche modo finisce per essere una qualche forma di istigazione
al suicidio, perché colui che cerca la morte, in realtà cerca di uscire da una situazione
difficile. Non è la morte l’oggetto primo della sua ricerca, ma il sostegno in una
situazione che da solo non riesce ad affrontare. Se incontra persone che sono in grado
di dargli un sostegno di natura clinica e psicologica, nessuno chiede la morte. La
morte la si chiede quando si ha una complicità, una complicità che non ha alcun valore
di tipo etico.