Raffica di attentati in Iraq. Duemila le vittime dallo scorso aprile
Iraq di nuoco scosso dalle violenze. Almeno 40 persone, di cui 25 membri delle forze
dell’Ordine, sono stati uccisi in attentati e attacchi in diverse aree del Paese.
Da inizio luglio si contano più 240 vittime, oltre 2000 dallo scorso aprile. Prosegue
dunque l’escalation di fronte alla quale l’Onu parla di rischio di guerra civile per
le divisioni settarie. Marco Guerra ne ha parlato con Maurizio Simoncelli,
vicepresidente di Archivio Disarmo:
R. – Purtroppo
alla caduta di regimi dittatoriali, come quello di Saddam Hussein - ma pensiamo anche
a quello di Gheddafi, pensiamo alla situazione in Siria, con la vicenda di Assad e
la rivolta armata che è in corso - non si contrappone una società civile organizzata
come noi la possiamo immaginare in Occidente. Ci sono situazioni molto complesse:
ci sono gruppi con spinte diverse, con interessi diversi che facilmente hanno a disposizione
armi e quant’altro, e di fatto si vanno realizzando situazioni di grande instabilità.
L’ultima in ordine di tempo è anche la vicenda egiziana: si è più volte detto che
non si può esportare la democrazia con le armi, perché in realtà il processo democratico
è un processo lungo, che avviene attraverso non decenni, ma forse anche secoli…
D.
– L’Onu parla di un rischio di guerra civile: siamo davvero a questo punto?
R.
- Indubbiamente gli scontri ci sono, si stanno incrementando e di fronte all’instabilità
governativa, questo evidentemente tende ad aumentare le probabilità di una guerra
civile. Teniamo presente, ad esempio, che l’area curda si è di fatto autoamministrata
e ha di fatto un’autonomia rispetto al resto del Paese; teniamo presente che ci sono
spinte di contrasto molto violente tra sciiti e sunniti. Questo evidentemente non
fa altro che peggiorare una situazione d’instabilità conseguente alla guerra e all’occupazione
militare successiva. Nel momento in cui i vari attori reclamano o una supremazia o
una totale autonomia o quant’altro, evidentemente questo comporta delle spinte ad
un confronto di tipo armato, di tipo violento.
D. - Forse bisognava proseguire
su un percorso di assistenza, anche militare?
R. – Non si può tenere occupato
militarmente un Paese all’infinito, anche perché le forze che in un primo momento
possono essere percepite di liberazione, non sono più di liberazione, ma diventano
di occupazione. E questo evidentemente è un problema sia per il Paese che subisce,
sia anche per i Paesi che inviano queste forze armate. Se andiamo a vedere poi i risultati
di queste missioni – proprio quelle più agguerrite di “peace and forcing” – sono quelle
che hanno dato maggiori problemi e minori risultati.