Papa Francesco è giunto a Lampedusa con un aereo militare dell'Aeronautica. Dall'aeroporto
dell'isola sta raggiungendo via mare il porto di Lampedusa ed al largo lancerà una
corona di fiori in ricordo degli immigrati che hanno perso la vita in mare. Grande
l’attesa tra gli abitanti del posto per il primo viaggio del Pontefice che ha scelto
di recarsi dove migliaia di persone approdano fuggendo da guerre e persecuzioni. Il
Papa pregherà per coloro che hanno perso la vita in mare e abbraccerà i profughi presenti
sulla terra siciliana. Nella Messa, che sarà celebrata nel campo sportivo, abbraccerà
ed incoraggerà anche tutti coloro che sono impegnati nell’accoglienza. Il nostro inviato
a Lampedusa Massimiliano Menichetti:
“Papa Francesco
ti vogliamo bene”, “benvenuto”, “pellegrino del mare”. Sono gli striscioni, i cartelloni
che, insieme alle bandiere bianche e gialle, i Lampedusani hanno sistemato fino a
questa mattina per le vie dove passerà il Papa.
Per me significa essere
finalmente considerati, considerati dal mondo e da tutti. Perché finora siamo stati
"invisibili". Adesso finalmente ci hanno considerati come esseri umani, come cristiani
e come parte anche dell’Italia e dell’Europa che finora non ci ha considerato assolutamente.
Il
Papa prega vicino a voi vicino agli ultimi. Che effetto ti fa il Papa qui?
Per
me è come se fosse uno di noi. Lo vedo uno di noi già da quando l’hanno eletto, ho
avuto un’emozione ed una sensazione bellissima.
Per lei che cosa rappresenta
la visita di questo Papa nell’isola?
Io sono una turista: per me la visita
di Papa Francesco - a prescindere che sia una persona molto umile - già ci ha dato
atto di tutte le cose che ha fatto, come si muove, la sua umiltà… Quindi, essere qui
sull’isola per me vuol dire che ha privilegiato gli ultimi. Mi sento anch’io privilegiata
da turista che amo quest’isola da 30 anni. Quindi, mi sento privilegiata. Essere qui
nel momento che lui arriva per me è un’emozione grande. Sento di aver ricevuto un
grande dono spirituale.
Cosa porterà con lei di questa visita del Papa?
Io
- a prescindere dell’amore che provo per lui sin dal momento in cui è stato eletto
- porterò un’emozione ancora più forte e porterò un’esperienza di vita che trasmetterò
a tutti quelli che mi stanno vicino.
Sostegno morale…
E’
il primo Papa che viene su quest’isola. Che cosa significa?
Non so come
spiegarlo. È troppo bello bello… ha deciso di cominciare dagli ultimi, dai confini
dell’Europa. Vuole darci sicuramente un sostegno spirituale, vuole sicuramente essere
di richiamo per quelli che sono stati cechi e sordi.
Se lei potesse dire
una cosa al Papa cosa gli direbbe?
Grazie. È proprio una gioia immensa…
Porta
d’Europa e di speranza, approdo per chi fugge da guerre o persecuzioni, Lampedusa
oggi è ricca di speranza, ma sempre cosente delle tragedie che si consumano a largo
delle sue coste. Ieri sera la preghiera degli isolani, nella Parrocchia di San Gerlando,
ha segnato il cammino di sobrietà di questa prima uscita di Papa Francesco, la prima
visita di un Pontefice all’isola. Densissimo il programma di oggi. Il Pontefice deporrà
in mare una corona di fiori, per i tanti che sono morti senza vedere questo avamposto,
20mila secondo le stime le persone che riposano nel blu del Mediterraneo. Sarà accompagnato
da 120 barche di pescatori, i guardiani di queste acque, vere e proprie ancore di
salvezza per migliaia di migranti. Poi abbraccerà chi varcando questa porta del Vecchio
Continente conserva un fardello che non dimenticherà mai; quindi la Santa Messa nel
campo sportivo. Qui non solo il calice e il pastorale, ma anche l’ambone sono stati
realizzati con i legni delle navi della speranza. Le loro carcasse giacciono a fianco
“dell’Arena” e saranno ben visibili a Papa Francesco. Poi l’incontro con i volontari
e don Stefano Nastasi, parroco di San Gerlando:
In realtà si tratta di
un ambone realizzato con dei timoni di barca. Ho avuto questa idea fin dal primo momento,
quando ci hanno comunicato che veniva Papa Francesco a Lampedusa e che ci dovevamo
preparare per una celebrazione. Ho fatto questa scelta sottoponendola naturalmente
a Roma - quindi a mons. Marini - pensando a questo. Come ambone abbiamo scelto dei
timoni, come altare una barca - che ora non è più in uso - di un vecchio pescatore
lampedusano. L’ho già spiegato ma lo ripeto ben volentieri; si tratta di due parti
della Messa: la parola ed il pane, da un lato Lampedusa e da un lato gli immigrati
o i migranti, per dire come la liturgia della parola, la liturgia eucaristica vanno
insieme per vivere la celebrazione, per vivere la Messa. Sono due parti: parola e
pane, per indicare la vita quotidiana, la forza del cristiano perché noi attingiamo
forza dalla parola e dal pane eucaristico. Queste realtà messe insieme nella simbologia
dell’ambone e dell’altare nel “mare della vita”. Dentro il mio cuore c’è una comunità
che ha agito, che ha sofferto e che ora condivide una gioia. Per noi è vicinanza forte,
profonda, ma è anche un segno per la nostra diocesi di Agrigento, per questa terra,
per questo cuore del Mediterraneo e direi per il mondo intero perché noi siamo realmente
una "periferia geografica", noi sperimentiamo la "periferia esistenziale". Il primo
viaggio del Papa che parte da qui dice tutto già con la sua stessa presenza.
Il
successore di Pietro viene per pregare, rinnovare nella fede, per scuotere le coscienze
dell’Italia, dell’Europa, del mondo intero affinché nessuno mai chiuda gli occhi davanti
all’umanità bisognosa.
E proprio in queste ore è sbarcato un barcone di migranti
al porto di Lampedusa, a bordo ci sarebbero circa 160 persone provenienti dall’Africa
Sub sahariana. Tutti hanno una storia di difficoltà e sofferenza per il lungo viaggio
compiuto. Massimiliano Menichetti ha raccolto la testimonianza di Awas, partito
dalla Somalia e approdato proprio a Lampedusa nel 2008:
R.
– Sono partito dalla Somalia e sono arrivato a Lampedusa. E’ stato un viaggio lungo,
in cui ho rischiato la vita, ma alla fine ce l’ho fatta.
D. – Mi puoi descrivere,
come si è svolto il viaggio?
R. – Non conoscevo la strada, quindi ho pagato
i trafficanti, quelli che dovrebbero aiutarti e dirti come arrivare, ma che spesso,
però, non ti danno le giuste informazioni. Mi hanno portato in Libia dal Sudan. Tra
il Sudan e la Libia, però, c’è un deserto e lì ho rischiato la vita.
D. – Quanto
sei rimasto in quella fascia di deserto?
R. – 24 giorni. Ci hanno dato da bere
ed anche da mangiare per quattro giorni, dicendoci che saremmo arrivati in Libia in
quattro giorni. Ma non è stato così: è finito tutto dopo 24 giorni.
D. – Tutti
sono sopravvissuti?
R. – No, no... Eravamo undici ragazzi somali e nove sono
morti. Siamo rimasti in due! Eravamo 150 persone di Paesi diversi. La maggior parte
di loro è morta.
D. – Poi siete partiti dalle coste della Libia verso Lampedusa?
R.
– La barca era a Tripoli. Si trattava di una barca di circa 4 metri per 45 persone:
bambini, donne, anziani...
D. – Il viaggio è stato difficile anche nella barca
o è stato più semplice?
R. – Grazie a Dio è stato facile, ma non sapevamo che
lo fosse. I trafficanti che abbiamo pagato ci hanno detto di guidare noi la barca.
D.
– Senza sapere come si faceva?
R. – Senza sapere come arrivare a Lampedusa
e dove fosse Lampedusa. Essendo sera, ci hanno detto: “Dovete guardare quella stella”.
Abbiamo chiesto quanto sarebbe durato il nostro viaggio e ci hanno risposto: “Venti,
ventidue ore”. “Ma in ventidue ore non è sempre sera, c’è il giorno, e la stella non
rimane lì per noi!” E loro: “Dovete andare sempre dritti per Lampedusa”. E noi ci
siamo chiesti: “Siamo pronti a morire o a sopravvivere?”
D. – Perché l’Italia?
R.
– Perché credevamo che l’Italia rispettasse i diritti umani, i diritti di asilo, anche
di asilo politico.
D. – E’ stato così?
R. – Sì, ci ha dato i documenti,
ma non abbiamo mai avuto tutto il resto.
D. – Come ti trovavi a Lampedusa?
R.
– Nei dieci giorni passati a Lampedusa ero molto, molto contento. I carabinieri, i
militari, la polizia, le persone che sono lì ti trattano bene: ti danno medicine,
ti controllano, ti danno da mangiare, un letto, tutto. Era tutto bellissimo. Io ero
contento e ringraziavo Dio, perché quello era ciò che mi aspettavo, per quello avevo
rischiato la vita e volevo vivere così. Mi dicevo: “La vita è migliore così: con una
persona che pensa a te, che ti vuole aiutare, che ti dà la mano, ti stringe”. Ma una
volta che sono uscito da Lampedusa è finito tutto: le persone che mi volevano bene
sono rimaste nell’isola.
D. – E poi che cosa è successo?
R. – Arrivato
a Lampedusa ci sono rimasto per dieci giorni, ho chiesto asilo e mi hanno portato
a Roma. Ricordo che era l’agosto del 2008. Sono andato in un centro di accoglienza
e, appena ho ottenuto i documenti, mi hanno detto: “Roma è grande! L’Italia è grande!”.
E quella è stata davvero - non so come dire - una delusione.
D. – Il Papa va
a Lampedusa e deporrà una corona di fiori in mare. Cosa pensi di questo gesto?
R.
– Penso che sia importante ricordare le persone che sono morte in mare. Ha pensato
bene di ricordare agli italiani che ci sono persone che vogliono venire in Italia
e muoiono durante il viaggio. E’ una cosa importante e sono contento che l’abbia pensato.
D.
– Se tu potessi, cosa gli chiederesti?
R. – Al Papa… chiedo di aiutare i poveri.
Io sono un povero, ma non sono solo. Non lo chiedo per me, non dimentichi i poveri.
Ho sentito che lui aiuta sempre i poveri. Non ho una richiesta specifica, speciale.
D.
– Cosa pensi di fare nella tua vita?
R. – Sto pensando di migliorare la mia
vita, grazie alle mie amiche suore, che mi aiutano sempre. Anche se lo Stato italiano
mi ha dimenticato – tutti noi rifugiati siamo per strada – cerco di cambiare: studio
e per fortuna ho trovato anche un lavoro part-time. Sto pensando, insomma, di riavere
quello che ho perso.
D. – Perché sei venuto via dalla Somalia?
R. –
Perché il gruppo al Shabab, che fa parte di Al Qaeda, voleva uccidermi.
D.
– Perché?
R. – Perché avevo un negozio dove vendevo dvd e cd e per loro era
vietato. Mi hanno detto, quindi, di chiudere il negozio. Io però ho detto: “Non posso
chiuderlo, perché questo è il mio lavoro”. E allora loro hanno risposto: “Ti uccidiamo,
perché vai contro le nostre regole e non puoi stare qui con noi”. Sono scappato.
D.
– Hai lasciato quindi tutta la tua famiglia, tutti i tuoi amici, tutti...
R.
– Ho perso tutto: amici, amore, famiglia, tutto.
D. – Potevi chiudere e fare
un’altra cosa, eppure hai scelto un percorso molto pericoloso, cioè quello di partire
per l’Italia...
R. – Se fossi rimasto in Somalia, non avrei potuto chiudere
il negozio, perché era l’unico lavoro. Ma soprattutto non sapevo che il viaggio per
arrivare in Italia sarebbe stato così difficile e rischioso. Se l’avessi saputo, sarei
rimasto in Africa, in un altro Paese. Non sapevo che la vita in Italia sarebbe stata
così difficile.
D. – Molti dicono: “Andiamo in Italia, andiamo in Europa, in
Germania, in Francia”, pensando che sia facile. C’è un po’ questo pensiero?
R.
– Nel nostro Paese, in Africa, pensiamo che in Europa ci siano tante cose. La parola
“Europa” per noi è qualcosa di grande. “Se andiamo in Europa troviamo tutto: troviamo
lavoro e così via”. Invece no: è un sogno.
D. – Ma non c’è nessuno di voi che
vi avverte?
R. – Sì, ma non ci crediamo. Per esempio, io se oggi chiamo mio
fratello e gli dico: “Fratello, si rischia la vita, è meglio che tu vada in un altro
Paese!”. Lui risponde: “Ma anche tu ci vivi!Che ci fai lì? Se lì non c’è niente, perché
stai lì? Vieni tu qui!”
D. – Perché non torni allora?
R. – Se torno,
rischio di nuovo la vita. Qui non c’è sistema, ma non rischio la vita.
D. –
Che cosa diresti alle persone del tuo Paese, sapendo che vorrebbero venire in Italia?
R.
– Direi che quello del venire in Italia è un sogno. “Levatevelo dalla testa, perché
in Italia, e non solo in Italia, in Europa, non c’è niente”. Direi loro di cercare
un’altra vita in un altro Paese, dove poter vivere, finché nel nostro Paese non ci
sia la pace. Quando nel nostro Paese ci sarà la pace, tutti noi torneremo. La Somalia,
infatti, è nel nostro cuore.
Papa Francesco ha ribadito più volte l’importanza
di guardare, agire nelle periferie del mondo. Lampedusa può diventare un esempio di
rinascita? Massimiliano Menichetti ha girato la domanda al cardinale Antonio Maria
Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli
Itineranti: R. - Potrebbe
davvero diventare un esempio di rinascita. La visita del Santo Padre conferma quello
che le Chiese locali, gli Istituti religiosi e i laici cristiani impegnati stanno
facendo in molti modi diversi e complementari. La nostra sollecitudine pastorale ci
incoraggia a restare vicino a coloro che sono costretti a fuggire, sensibili e attenti
alla loro situazione. Questo è molto esigente e avrà una particolare ripercussione
su tutti noi, visto che saremo toccati sul vivo, soprattutto se lasciamo entrare questi
nuovi poveri nella nostra vita, se non distogliamo gli occhi da questi nuovi schiavi
dell’era moderna. Voglio solo citare, come esempi tra tanti altri, il Servizio
dei Gesuiti per i Rifugiati, la Caritas, le Commissioni episcopali per la mobilità
umana e la Commissione Cattolica Internazionale per le Migrazioni. Si tratta di organismi
che vivono con i rifugiati e gli sfollati e cercano di assisterli, per migliorare
le loro condizioni di vita. Ecco, la nostra stessa presenza in circostanze tanto difficili
è un’autentica testimonianza di fede. Per loro la visita del Papa sarà come una forma
di sostegno e di incoraggiamento per il lavoro che stanno facendo. Lo stesso vale
per le persone che sono arrivate a Lampedusa e per la popolazione locale, che si prende
cura di chi arriva con straordinari esempi di generosità e di altruismo.
Per
molti di noi, questa visita può diventare un nuovo appello a prendere in seria considerazione
ciò che il messaggio di Gesù vuol dire sulla sofferenza nel mondo, intorno a noi.
Come possiamo rispondere a questo appello con azioni concrete, affrontando anche le
cause che stanno all’origine dei flussi migratori e proponendo soluzioni eque per
creare situazioni di sicurezza, di stabilità, di coesione sociale e di responsabile
integrazione?
D. - Quale il suo augurio per questo viaggio di Papa Francesco?
R.
- Il 5 luglio ho visto il Santo Padre quando ha consacrato lo Stato della Città del
Vaticano a San Giuseppe e a San Michele Arcangelo ed ha benedetto una statua dedicata
a quest’ultimo. C’erano sia Papa Francesco sia il Papa emerito Benedetto. Spero che
si realizzino le aspettative che il Santo Padre porta nel cuore e che gli hanno suggerito
questo primo viaggio all’inizio del suo pontificato. Parlando con Papa Francesco ho
detto che tutti erano rimasti contenti di questa sua decisione di andare a Lampedusa.
È un segno forte. Mi auguro che la sua visita, quello che farà e quello che dirà sappiano
sensibilizzare l’opinione pubblica sui motivi che costringono uomini, donne, anziani
e bambini a fuggire, sollecitando maggiore comprensione e compassione nella società.
Parlando con il Papa ho anche detto: “Santo Padre noi non possiamo risolvere tutti
i problemi ma possiamo però creare una nuova mentalità più favorevole, più aperta
a questi nostri fratelli che si trovano in condizioni molto più difficili delle nostre”.
L’atteggiamento del Santo Padre nei confronti di coloro che soffrono, toccati dalla
persecuzione o dalla miseria, ci ricorda che una società che vuol definirsi civile
non può accettare che vi siano persone innocenti che sopravvivono in condizioni disumane,
private di dignità, di presente e di futuro. Anche questo può essere fonte di ispirazione
per una rinnovata attenzione umana, civile ed una rinnovata attenzione pastorale.