Giornata contro la tortura: si pratica in oltre 110 Paesi
In oltre 100 Paesi si pratica la tortura. E’ quanto denunciato ieri per la Giornata
internazionale a sostegno delle vittime di tortura, indetta in occasione dell’anniversario
della ratifica della Convenzione Onu entrata in vigore il 26 giugno 1987. Servizio
di Francesca Sabatinelli:
Mettiamo la
parola fine alla tortura nel mondo, sosteniamo e assistiamo tutti coloro che l’hanno
subita e sollecitiamo affinché i paesi provvedano a riparare quanto sopportato dalle
vittime. E’ la sintesi del messaggio che il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon
ha inviato in occasione dell’odierna Giornata a sostegno delle vittime di tortura,
aberrante pratica distribuita ad oggi in 112 Paesi del mondo, ben 11 in più dello
scorso anno, come indicato da Amnesty International. Le vittime, chiunque esse siano,
bambini donne o uomini, restano marchiate da ferite e traumi indelebili, annichilite
dalla perdita della loro identità sociale, politica e culturale.
La tortura
si pratica in molti Paesi preda di conflitti, ma si insinua anche nelle pieghe più
nascoste delle nazioni più democratiche. Si pensi all’Italia che non ha ancora introdotto
la tortura come reato specifico del suo codice penale, una grave mancanza giuridica
che continua da tempo ad essere denunciata dalle associazioni che si battono per la
difesa dei diritti umani. Tra queste vi è il Cir, Consiglio Italiano per i Rifugiati,
che dal 1996 gestisce progetti mirati alla riabilitazione dei sopravvissuti alla tortura.
Un rifugiato su tre di coloro che arrivano in Italia ha subito esperienza di tortura.
E fino ad oggi il Cir ha assistito circa tremila persone. Fiorella Rathaus,
responsabile dei progetti Cir diretti alle vittime di tortura:
R. – La tortura
non avviene soltanto in Paesi lontani, non colpisce soltanto persone che poi arrivano
qui, in fuga, ma è un fenomeno molto vicino a tutti noi, che ci riguarda profondamente
e contro il quale dobbiamo lottare. Purtroppo, ci troviamo davanti a cifre che sono
addirittura superiori rispetto al passato, cifre di Paesi che a tutt’oggi praticano
la tortura. E questo è davvero una considerazione drammatica.
D. – Anche in
considerazione dei numerosi conflitti che si stanno drammatizzando sempre di più?
Penso alla Siria…
R. – Non direi che necessariamente sia collegata. Sicuramente,
poi, in queste situazioni, si esaspera. Credo che per cogliere il senso profondo della
tortura bisogna pensare a qualcosa di più banale, nel senso che può intromettersi
nella quotidianità e nella vita delle carceri, nella vita del potere, in modo anche
meno eclatante, ed è per questo che non dobbiamo guardare solo alla guerra per crearci
gli anticorpi. Per crearci anticorpi che funzionino per davvero, bisogna guardarla
nella sua mostruosità e nella sua banalità e nel suo essere, in qualche modo, a portata
di mano di tantissime situazioni di potere. Ed è così che ne cogliamo la pericolosità
e il senso profondo. In sé, la tortura è espressione di un male endemico della società,
e solo questo ci aiuta poi a capirla, a coglierla, e a prevenirla davvero.
D.
– Partendo da questo, è opportuno puntualizzare ciò che non solo il Cir, ma tantissime
associazioni ormai da anni denunciano: il fatto che in Italia non esista il reato
di tortura.
R. – Questo, evidentemente, è un’inadempienza gravissima dello
Stato italiano: l’assenza di un reato di tortura, di una fattispecie specifica giuridica,
compromette la possibilità di colpire davvero quello che succede in queste circostanze.
D.
– Il Cir da sempre si occupa in vari modi della riabilitazione delle persone che arrivano
in Italia e che hanno subito la tortura e che spessissimo hanno ricadute estremamente
gravi a livello psicologico, sviluppano delle patologie … Voi con cosa vi confrontate?
Quanto successo, se così si può definire, ha avuto questo tipo di approccio adottata
dal Cir?
R. – La tortura non mira a far parlar le persone, la tortura mira
soprattutto a distruggere l’identità profonda della persona: l’identità morale, l’identità
culturale, l’identità sociale. Le persone che sopravvivono alla tortura devono essere
guardate come persone piene di risorse, anche se qualcuno ha tentato di devitalizzare
queste risorse. E noi, in quella prospettiva dobbiamo lavorare – e lo facciamo – ad
esempio con un intervento legale che serve a far sì che queste persone siano credute,
nelle loro storie difficili da credere, perché sono storie inconcepibili e indicibili.
Però, ecco, se li aiutiamo ad essere creduti, se li aiutiamo a ricostruire un tessuto
sociale – e questo è un altro aspetto importante – se li aiutiamo a ricostruire e
a ricomporre i frammenti della loro psiche devastata da queste esperienze, se riusciamo
a restituire una continuità alle loro esistenze, lì possiamo senz’altro fare un lavoro
significativo. L’idea della tortura è distruggere, porre fine alla capacità di queste
persone di un pensiero indipendente, di un pensiero vitale, di un pensiero che possa
essere critico e portatore, anche – in alcuni casi – di verità.
D. – Chi sono
le vittime di tortura che ad oggi arrivano in Italia, da dove provengono e cosa presentano,
soprattutto?
R. – Lavoriamo moltissimo, come Cir, con persone provenienti dall’Afghanistan,
dall’Eritrea, dalla Repubblica Democratica del Congo, e poi Costa d’Avorio, alcune
persone dalla Nigeria, quest’anno abbiamo avuto anche alcune persone dal Senegal.
Le persone arrivano spesso davvero in condizioni drammatiche, e per noi è veramente
molto difficile pensare che queste cose siano successe il mese prima. Per esempio,
per ragioni familiari io ho incontrato molti reduci dai campi di sterminio. Però,
queste storie emergono normalmente molto tempo dopo. C’è questa distanza tra il momento
in cui le storie vengono raccontate e il momento in cui sono avvenute. Spesso, con
i rifugiati, non c’è distanza: la persona che hai davanti è una persona che davvero
ha ancora sulla carne, reale o metaforica, stampata una vicenda recente, in cui davvero
hanno visto il carnefice faccia a faccia due settimane prima, tre settimane prima.
E questo è ancora più forte. E anche il modo in cui queste cose vengono raccontate,
laddove la persona riesce a farlo – il che non è per niente ovvio – arriva veramente
come un pugno nello stomaco.