Un detenuto su tre è in carcere per droga: presentato il IV Libro Bianco sulla Fini-Giovanardi
Nelle carceri italiane un detenuto su tre è in cella per detenzione di sostanze stupefacenti:
su un totale di 63.020 ingressi alla fine del 2012, quelli dovuti alla violazione
dell’articolo n. 73 della legge sulla droga, quello appunto sul consumo di sostanze,
sono stati quasi 20.500. A rilevarlo è il IV Libro Bianco sugli effetti “collaterali”
della Fini-Giovanardi, presentato ieri alla Camera da alcune associazioni tra cui
Antigone e Cnca. Consegnata una copia anche al premier Letta alla vigilia del consiglio
dei ministri che discuterà il decreto sull'emergenza carceri. Alle associazioni replica
il senatore Carlo Giovanardi, secondo cui la normativa che porta il suo nome non ha
aumentato il numero dei detenuti per droga. Adriana Masotti ha sentito Riccardo
De Facci, vice-presidente del Cnca intervenuto alla presentazione del Libro:
R. – Sì, questo
è uno degli elementi più eclatanti, come risultato della legge. Cioè il fatto che
persone, sui cui stili di vita possiamo non essere d’accordo, ma che per il semplice
possesso di sostanze vengano prima di tutto incarcerate, riteniamo sia un’aberrazione
del sistema socio-sanitario. Una persona che consuma droghe ha bisogno probabilmente
di incontrare soprattutto un educatore, uno psicologo – se ne ha bisogno – ha bisogno
forse di incontrare qualcuno con il quale parlare del significato di questo consumo.
Non possiamo pensare invece che la risposta ad un fenomeno così ampio sia delegato
totalmente al carcere. Calcolate che l’Osservatorio europeo ci dice che 85 milioni
di europei – quindi, un quarto della popolazione europea – ha sperimentato nella propria
vita una sostanza illegale, di cui 77 milioni sono i consumatori di cannabinoidi,
ad esempio, che anche per quanto riguarda il sistema carcerario italiano riguardano
il numero più alto dei consumatori, specie occasionali. Questi sono dati che devono
farci riflettere sulla necessità di investire maggiormente sull’attenzione educativa,
prima ancora che terapeutica.
D. – Perché voi dite che oggi non sono più praticabili
le alternative terapeutiche al carcere previste dalla legge?
R. – Perché in
questo momento, su più di 10 mila persone tossicodipendenti che avrebbero titolo ad
un programma terapeutico in comunità, l’investimento economico e la lentezza della
magistratura permettono di poterlo offrire solo a 3/4 mila persone e non alle 10 mila
per le quali, invece, un percorso terapeutico potrebbe essere utile. Purtroppo, attualmente
il sistema italiano punisce, incarcera ma non riesce, neanche per le persone che ne
avrebbero titolo, a garantire un posto in comunità, un posto di accoglienza residenziale,
una misura alternativa. Riusciamo a garantirlo a meno del 50% delle persone che potrebbero
trarre vantaggio da questo tipo di percorso.
D. – Che cosa succede ad un ragazzo
tossicodipendente quando fa l’esperienza del carcere? Come ne esce?
R. – Nella
maggior parte dei casi finisce per acquisire la dinamica del carcere, che è una dinamica
di sopraffazione, di violenza, di forza in cui la debolezza che molto spesso sottostà
ad una tossicodipendenza, quella incapacità di vivere, rischia di trovare e di rafforzare
più il pensiero criminale di furbizia che è un pensiero di uscita dalla dipendenza.
Vuol dire, ad esempio, che porta alcune di queste persone a provare a cercare di trovarsi
delle sostanze anche in carcere, di bere più degli altri e magari anche di trovare
in carcere situazioni di violenza di vario tipo. Per cui, quello che noi chiediamo
è: cerchiamo di essere meno vendicativi e molto più accoglienti; noi ci offriamo come
operatori, come comunità, come operatori dei servizi pubblici. Noi abbiamo voglia
di accogliere quel numero enorme di persone che, secondo noi, in carcere non dovrebbero
stare. Dovrebbero stare in comunità, nei nostri ambulatori a discutere con i nostri
educatori psicologi. Non possiamo scaricare sul carcere un problema che ha queste
dimensioni, perché è soprattutto un problema di tipo sociale.