Le persone sono disposte ad aiutare, ma sulla generosità sta pesando la crisi economica.
E' quanto emerge dal rapporto tra gli italiani e la carità analizzato, per la Fondazione
Casa della Carità di Milano, dalla Società Astra Ricerche, confrontando i nuovi dati
con quelli del 2005. L’indagine, è stata presentata oggi a Milano. Al microfono di
Elisa Sartarelli, il presidente di Astra Ricerche, Enrico Finzi:
R – Sicuramente
la crisi pesa duramente. Nell'ambito dell'indagine, i nove milioni e 400 mila nostri
connazionali – quasi uno su quattro – dicono “non riesco più ad aiutare gli altri”.
Il fenomeno è concentrato nelle aree più povere – dal Lazio in giù – e colpisce in
particolare i soggetti con basso reddito e quelli tra i 45 e i 54 anni di età. La
crisi, purtroppo, ha fatto crescere un po’ l’egoismo: a chiacchiere il favore per
la carità e per la solidarietà in Italia è molto vasto e raccoglie quasi i due terzi
dei nostri connazionali, però se si va a vedere in concreto, solo il 54% si rende
conto che non si può chiedere tutto allo Stato e che è indispensabile non solo mettere
mano al portafoglio – perché alcune volte questo può essere uno scarico di coscienza
– ma bisogna anche impegnarsi, o come si dice “farsi prossimo”.
D. – L’impoverimento
dei ceti medi e medio bassi, provocato dalla forte crisi economica, ha dunque influito
sulla propensione alla generosità. Quali sono le strategie da adottare affinché la
carità resti presente nella vita di ognuno?
R. – Il primo ambito, quello determinante,
è quello dei valori: se non si reintroducono e non si estendono valori forti nella
società questa tende a disgregarsi e rischia di determinarsi il trionfo dell’individualismo;
poi, c’è un problema di educazione a partire dai primi anni di vita. Una formazione
che è anche responsabilità dei mezzi di comunicazione di massa i quali non possono
naturalmente non rendere conto delle brutture della vita, ma troppo spesso dimenticano
di raccontare anche esempi - piccoli, grandi e luminosi - del ben operare. Poi, non
avere pretese di grandi cose: la carità è una sommatoria di tanti piccoli atti; certo
la grande donazione della persona abbiente è di immensa utilità materiale, ma forse
da un punto di vista etico e di esempio valgono di più i pochi euro strappati ad una
pensione miseranda da un anziano generoso.
D. – Circa la metà degli intervistati
si riferisce “indignato” per le troppe ingiustizie della società. Oltre all’aiuto
verso il prossimo, dovremmo forse cercare di risolvere il problema a monte cambiando
la società stessa e l’economia?
R. – Questa è stata una contrapposizione classica
del ‘900. Da un lato c’era chi valorizzava la carità come aiuto ai singoli bisognosi,
e dall’altro c’era chi – specialmente a sinistra – diceva “Ma la carità è un pannicello
caldo, dobbiamo cambiare le strutture sociali”. Oggi la popolazione in parte è diventata
più insensibile, ma in parte fa valere una cultura che non tiene conto della contrapposizione
di cui parlavo. Non c’è dubbio che si tratta di aiutare la singola persona dolente,
non solo dandole un tozzo di pane ma anche accompagnandola, standole vicino e fornendole
gli strumenti per uscire dalla sua condizione di miseria, materiale e psicologica.
Bisogna certamente anche rimuovere molti vincoli che rendono troppo forte la diseguaglianza
sociale: è in qualche modo indignante la differenza che c’è tra ricchi e poveri che
in tutto il mondo, ma anche in Italia, è cresciuta fino a livelli che non sono più
sostenibili. La carità è anche giustizia e la giustizia richiede carità.