Afghanistan: Obama conferma i colloqui con i talebani, critiche da Karzai
I colloqui di pace devono proseguire nonostante le difficoltà. E’ l’auspicio per l’Afghanistan
del presidente americano Barack Obama che, da Berlino, ha invitato le parti a lavorare
per spezzare il ciclo delle violenze. Stamani, il governo di Kabul ha annunciato la
sospensione delle trattative con gli Stati Uniti per l’accordo che avrebbe permesso
alle truppe americane di rimanere operative nel Paese nel 2014. Il presidente Karzai
ha ribadito che l'Afghanistan deve scegliere senza interferenze il suo futuro. Un
passo indietro dunque dopo l’annuncio martedì dell’apertura dei colloqui di pace in
Qatar tra gli Usa, lo stesso Karzai ed i talebani. Annuncio coinciso con l’apertura
di un ufficio a Doha denominato ''Emirato islamico dell'Afghanistan''; proprio questa
dicitura ha creato malumori all’esecutivo di Kabul. Benedetta Capelli ne ha
parlato con Antonello Biagini, ordinario di Storia dell’Europa orientale presso
l’Università di Roma “La Sapienza”:
R. - Il ragionamento
serio che andrebbe fatto è capire perché gli Stati Uniti ad un certo punto hanno,
in qualche modo, "bypassato" il governo di Kabul rivolgendosi direttamente a questo
ufficio che ha una denominazione che già prelude ad un certo tipo di assetto dell’Afghanistan.
Quindi, è come se gli Stati Uniti da un lato sostenessero un governo “legittimo”-
quello di Kabul -, e dall’altro lato però siano disposti a trattare con quelli che
non riconoscono quel governo e che vorrebbero abbatterlo. Quindi c’è una certa incoerenza.
Diciamo che da questo punto di vista possiamo capire l’atteggiamento del governo di
Kabul che si sente deprivato di una sovranità. Tra l’altro, se queste trattative fossero
fatte direttamente con i talebani, in qualche modo si vanificherebbero anche tutti
questi anni, perché il tipo di governo che si è voluto costruire in Afghanistan è
un po’ di tipo occidentale. Penso che se invece del parlamento, avessero fatto un
parlamento con i capi tribù, con i capi dei clan, la situazione probabilmente si sarebbe
risolta prima, perché culturalmente l’Afghanistan funziona in questo modo.
D.
- Gli Stati Uniti hanno investito molto in Afghanistan. Ma perché questi negoziati
dovrebbero implicare la presenza degli Stati Uniti, dato che i colloqui di pace riguardano
l’Afghanistan; dunque, Karzai e i talebani …
R. - In astratto dovrebbero incontrarsi
Karzai e i talebani e magari - come è accaduto anche in passato - una grande potenza
che fa da mediatore. Poi però nella realtà concreta, politica attuale, abbiamo che
proprio dagli Stati Uniti è partita questa missione di combattere i talebani e instaurare
un regime diverso a Kabul. Quindi c’è una sorta di assunzione di responsabilità dell’unica
grande potenza rimasta sulla scena, che oggi però si trova - nella linea politica
scelta dai democratici e da Obama - in dovere di mettere fine a questa situazione,
perché non solo è una promessa della campagna elettorale, ma perché non possono non
farlo. Nello stesso tempo, si rendono conto che i due soggetti da soli non arriverebbero
mai da nessuna parte. Si è creata una situazione in cui ognuno è costretto ad essere
presente: i talebani non possono essere ignorati perché - ripeto - ancora esistono
e ancora hanno una loro forza ed una presa sulla popolazione; il governo di Karzai
non può essere ignorato perché è un governo comunque legittimo, legittimato ed anche
riconosciuto all’estero e gli Stati Uniti perché sono stati gli attori principali
di tutta questa operazione, e quindi non possono andarsene lasciando una situazione
di guerra civile forse peggiore di quella che c’era prima di questo intervento occidentale.
D.
- Ieri dopo l’annuncio dei negoziati, si è verificato subito un attacco contro una
base americana, rivendicato, tra l’altro dai talebani. È la dimostrazione che il fronte
degli insorti è diviso sull’opportunità di dialogare con Karzai, quindi anche con
gli Stati Uniti?
R. - Sicuramente questo, ma ciò conferma ancora di più che
spesso questo tipo di forze che adottano la guerriglia come strumento della politica
- e gli attentati fanno parte di tutto questo - non desiderano il processo di pace,
perché verrebbe meno il loro ubi consistam, in qualche modo non avrebbero più
ragione d’essere. Per una forza politica che ha basato tutta la sua esistenza e anche
le risorse che riesce ad ottenere su un presupposto che formalmente è ideologico -
ma che poi nella sostanza nasconde tutta un’altra serie di equilibri che sono quelli
poi del ruolo che oggi il mondo islamico o una certa parte del modo islamico vuole
giocare nella politica internazionale - è chiaro che attuatasi una pace, comunque
sia, il ruolo di queste forze verrebbe meno.