Per non dimenticare i rifugiati: a Roma una mostra del Servizio dei Gesuiti
Da martedì sera e fino a domani, 200 fotografie proiettate a Roma racconteranno la
vita e le difficoltà dei rifugiati. E’ un’iniziativa del Jesuit Refugee Service, in
occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, che si celebra oggi. Il servizio
di Francesca Sabatinelli:
Un milione e
mezzo di fuoriusciti dalla Siria, decina di migliaia dal Congo: sono i rifugiati ai
quali è dedicata la mostra fotografica “Santuario e Nutrimento” , organizzata dal
Servizio dei Gesuiti per i rifugiati (JRS), in occasione del 20 giugno. Da stasera,
e per tre giorni, a Roma sulla facciata della Chiesa del Gesù, saranno proiettate
foto inedite, scattate dal personale del JRS nei campi profughi in Libano e Congo,
a testimonianza delle esperienze di rifugiati e richiedenti asilo, costretti a fuggire
da guerre, persecuzioni e violazioni dei diritti umani. La mostra è inoltre visitabile
fino al 30 giugno nella Chiesa del Gesù. Un’iniziativa, in contemporanea con New York
e Beirut, necessaria a ricordare che, spiega padre Giovanni La Manna, presidente
del Centro Astalli, anche in Italia ci sono scarse condizioni di accoglienza.
R.
- Sono dieci anni che lo dico! E il continuare a dirlo vuol dire che c’è ancora la
speranza che possa cambiare qualcosa ed è doveroso rimanere voce di chi non ha voce.
Purtroppo, in Italia i governi che si sono alternati - sono stati un buon numero -
hanno manifestato sempre disinteresse nei confronti di queste persone, per cui è mancata
poi una politica seria di accoglienza. Non ci si deve arrendere! E noi non ne abbiamo
alcuna intenzione: finché ci saranno rifugiati e persone costrette a scappare dalla
propria patria, rimarremo con loro, servendo loro, e dicendo con fermezza che siamo
stanchi di assistere alle morti in mare, siamo stanchi di politiche poco serie e pretendiamo,
in un periodo non facile, che si diventi seri anche nell’accoglienza progettuale dei
rifugiati, impedendo loro di rischiare la vita. Sappiamo dove sono: stabiliamo dei
canali umanitari sicuri per farli arrivare. Non vogliamo più vedere persone aggrappate
alle tonnare o sentire racconti di sopravvissuti, che ci danno il numero di quelli
che sono morti, o assistere all’incredibile realtà di vedere una donna partorire su
un barcone!
D. - Si sono susseguite le immagini di tutti quei rifugiati che
sono fuggiti dalle coste libiche nel tentativo di raggiungere la salvezza. Forte fu
la denuncia del Centro Astalli quando l’allora governo Berlusconi firmò il Trattato
di amicizia Italia-Libia, Trattato che, in qualche modo, è stato rinnovato dal governo
tecnico di Mario Monti. Oggi, abbiamo il governo di larghe intese di Enrico Letta.
Cosa chiedete?
R. - Chiediamo che si abbia anzitutto l’onestà di dire - non
a padre Giovanni o al Centro Astalli o al Jrs - al popolo italiano, e di riferire
in parlamento, quanto spendono gli italiani negli accordi con la Libia e in cosa consistono.
Non c’è mai stato un responsabile di governo che abbia reso conto al parlamento italiano,
agli italiani, di quanto stanno costando gli accordi. Bisogna sapere che ci sono racconti
drammatici, gli italiani devono sapere che finanziando i libici, "finanziamo" anche
gli stupri che le donne somale subiscono nei centri di detenzione libici. Sono situazioni
indegne, realizzate anche con i soldi nostri. Se sono costretti a pagare 1.400 dollari
nel viaggio da Tripoli a Lampedusa, rischiando la vita nel Mediterraneo, c’è una nostra
parte di responsabilità. Noi ci siamo macchiati anche della situazione indegna dei
respingimenti: siamo stati condannati. Allora tutte queste esperienze dovrebbero insegnarci
e aiutarci a migliorare. Dal governo Letta mi aspetto politiche oneste, serie e trasparenti,
nei confronti delle persone che sono costrette a lasciare il proprio Paese, perché
in fuga da guerre e conflitti, e molto probabilmente abbiamo la nostra parte di responsabilità
in quei conflitti. Ad esempio, il silenzio dell’Italia in Siria pesa…
D. –
Sì però quanto è credibile l’Italia oggi di fronte all’Unione Europea e alla politica
internazionale?
R. - Purtroppo, paghiamo il prezzo di una mala politica che
ci ha tolto credibilità e autorevolezza. Sbilanciarsi in iniziative del genere potrebbe
ora restituire dignità. La diplomazia si è persa. Anche il Mali rappresenta una triste
realtà: non è possibile che i conflitti si risolvano soltanto con le armi. Ci siamo
rassegnati a questo. E’ bene che cresciamo culturalmente e ritorniamo a dare peso
alle diplomazie. Le armi sono un mercato favorevole per molti, però non possiamo più
ragionare in maniera schizofrenica in sedi internazionali: i politici, i governanti,
i rappresentanti si dichiarano tutti d’accordo sul volere la pace e poi, sottobanco,
vendono armi. In Siria, se non arrivano le armi, molto probabilmente il conflitto
va a diminuire, fino ad arrivare a spegnersi.
D. - Di rifugiati ormai se ne
incontrano ovunque, non si può non sapere chi è il rifugiato, eppure gli italiani
continuano a girarsi dall’altra parte. Non chiedono al loro Paese che si faccia carico
di tutto questo…
R. - Siamo stati abituati a reagire emotivamente: l’immagine
dell’afghano in televisione mi commuove e gli mando pure i due euro con l’sms. Ma
se lo stesso afghano, lo vedo qui, a Roma, mi spavento, perché è sporco. Dobbiamo
uscire dalla reazione emotiva, lasciar sedimentare l’immagine e riflettere sull’immagine:
questo ci porterà a prendere consapevolezza di chi sono i rifugiati, perché sono nel
nostro Paese, e a chiedere con autorevolezza ai nostri governanti di fare la loro
parte per dare un’accoglienza dignitosa.