“Parlare civile”: il libro di Redattore Sociale per una comunicazione senza discriminazioni
Distinguere tra “senza tetto” e “senza dimora” e non usare “barbone” o “clochard”.
È solo uno dei consigli ai comunicatori di professione contenuti nel libro “Parlare
civile: comunicare senza discriminare”, curato dall’agenzia giornalistica Redattore
Sociale in collaborazione con l’associazione Parsec e la Open Society Foundation.
La presentazione a Montecitorio alla presenza del presidente della Camera, Laura Boldrini.
Al microfono di Roberta Barbi, il direttore di Redattore Sociale, Stefano
Trasatti, spiega come è nato questo progetto:
R. - L’idea
è nata, è germogliata negli anni, fa parte della storia di Redattore Sociale. Noi
ci siamo sempre preoccupati di pubblicare notizie ma non solo, pubblicare anche dei
dati. Il linguaggio in certi periodi è stato davvero brutto, davvero preoccupante,
insomma: sono state usate parole, etichette, discriminatorie e offensive. Ci sembrava
che questo libro potesse essere un contributo a migliorare questo. I destinatari sono
i comunicatori, non solo i giornalisti, anche i pubblicitari, anche i politici.
D.
- Il libro affronta, in una cornice unica, otto temi apparentemente scollegati, dalla
disabilità, all’immigrazione, dalla prostituzione alla salute mentale, una sorta di
minidizionario di 25 parole chiave: può farci qualche esempio?
R. - Si può
citare il capitolo che abbiamo chiamato “delitto passionale”, come altri termini simili
come “dramma della gelosia” o “delitto d’onore”, “raptus”, che hanno in sé elementi
quasi attenuanti: no, è un femminicidio e basta! C’è l’eterna diatriba sulla parola
“clandestino” che in certi periodi storici è stata usata come sinonimo di immigrato
o sinonimo di delinquente. Ci sono termini come “badante”: a noi sembra che in certe
parti di Italia abbia connotati un po’ offensivi, perché si bada agli animali, insomma.Il termine “diversamente abile” che è rifiutato, a favore del termine “persona
con disabilità” o “persona disabile”. Sosteniamo che dietro ogni parola c’è una storia.
D.
- Molti dei termini che utilizziamo, penso a “child labour” piuttosto che “homeless”,
sono forestierismi. Perché l’Italia è ancora così indietro rispetto al resto dell’Europa?
R.
- Per un’esterofilia che attraversa il nostro Paese da molti anni. In certi casi è
obbligata finché non si trova un termine italiano, perché poi non è mica facile… Gli
italiani però sono molto creativi: così come abbiamo trovato la parola “colf” per
sintetizzare collaboratrice familiare - che non è un termine straniero, è semplicemente
una sigla che viene accettata - così prima o poi ci saranno termini per definire altre
persone e altre situazioni.
D. - Oltre ad alcuni termini che sono suggeriti
perché sono preferibili ad altri, ci sono anche concetti che ancora non hanno un termine
che li definisca…
R. - In questi casi bisogna fare ancora più attenzione perché
si rischia di usare sinonimi che poi sono del tutto inadeguati.
D. - Si può
definire questo, un libro in favore della comunicazione, anche di quella quotidiana
tra le persone comuni?
R. – Assolutamente! Noi abbiamo usato lo slogan che
è “un libro che serve per la manutenzione delle parole”. Questa attenzione al linguaggio
deve diventare una cosa naturale. Questo libro magari tra 10 anni sarà in gran parte
vecchio perché nel frattempo il linguaggio si è evoluto, però se noi non sorvegliamo
e non seguiamo questa evoluzione e non contribuiamo anche noi al miglioramento, al
consolidamento, è come se facessimo solo in parte il nostro mestiere di comunicatori:
usare il linguaggio adeguato è un ferro del mestiere.