Myanmar. Aung San Suu Kyi pronta a candidarsi alle presidenziali del 2015
In Myanmar, il Premio Nobel per la Pace e leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi
ha annunciato l’intenzione di candidarsi alle prossime elezioni presidenziali del
2015. Ventilata anche la possibilità di revisione della Costituzione, visto che la
giunta militare, attualmente al potere, non ha bloccato l'apertura di un processo
esplorativo in tal senso. Il servizio di Massimiliano Menichetti:
E’ dal World
Economic Forum di Naypyidaw, capitale del Myanmar, che la leader dell’opposizione,
Aung San Suu Kyi, ha confermato che sarà in lizza per le presidenziali del 2015. “Desidero
correre per la presidenza. Se avessi detto che non lo volevo, non sarei stata onesta",
ha detto sorridente davanti ai delegati. Poi, l’auspicio per il “cambiamento della
Costituzione”. La decisione della popolare leader della Lega Nazionale per la Democrazia
era attesa. Quando scadrà il mandato dell'attuale presidente, Thein Sein, il Premio
Nobel per la Pace avrà 70 anni. Dopo aver boicottato il voto del 2010, il partito
di Aung Suu Kyi ha conquistato 43 seggi nelle elezioni suppletive dell'aprile 2012,
esito che ha consentito alla leader di entrare in parlamento. Una svolta avvenuta
dopo 15 anni di detenzione decisi dalla Giunta militare, che ha progressivamente aperto
al processo di democratizzazione. In questa direzione, anche la decisione delle divise,
tutt’ora la potere nel Paese, di non porre il veto sul cambiamento della Carta costituzionale
imposta nel 2008. Lo scorso marzo, infatti, il parlamento ha approvato l'apertura
di un processo esplorativo di revisione della Carta fondamentale, anche grazie al
sostegno dei militari che occupano di diritto un quarto dei seggi.
Massimiliano
Menichetti ha raccolto il commento di Maria Teresa Sivieri, esperta dell’area
e autrice del libro “Viaggio in Myanmar. La Birmania dal feudalesimo alla dittatura
attraverso il colonialismo” edito da Cleup:
R. – Penso che
Aung San Suu Kyi abbia agito bene. Lei ha 43 seggi in parlamento, mentre il partito
del governo ne ha più 400. Il 25% dei seggi sono occupati dai militari, che non sono
stati eletti ma nominati dal capo dello Stato Maggiore. Però, se le urne saranno libere,
non ci saranno brogli, tutti sono convinti che lei vincerà.
D. – Comunque,
una parabola straordinaria quella di Aung San Suu Kyi: la Giunta l’ha tenuta 15 anni
agli arresti, poi l’apertura al processo democratico…
R. – Questo è un segnale
sicuramente positivo, indubbiamente la dittatura ha ceduto perché ha intuito i vantaggi
e perché non poteva mettersi contro tutto il mondo, ormai la cosa durava da molto
tempo. Aung San Suu Kyi è stata veramente straordinaria, se pensiamo che non è riuscita
neppure ad andare al funerale di suo marito, che ai figli non era permesso di incontrarla…
Ha sofferto veramente tanto questa donna, che è stata aiutata – come diceva lei stessa
– dal suo credo e da quello che aveva fatto suo padre, ucciso quando lei aveva solamente
due anni. Il padre aveva condotto il Paese verso la democrazia, dopo la fine della
Seconda Guerra Mondiale, e Aung San Suu Kyi non lo ha mai dimenticato e si è impegnata
in prima persona nella stessa direzione.
D. – Quali sono i problemi principali
che sta affrontando il Paese?
R. – Prima di tutto, quello delle etnie, che
sono tantissime e sono in lotta fra di loro. Poi i problemi inerenti alla povertà,
perché il Myanmar è un Paese povero, ma ricchissimo di risorse naturali – gas, pietre
prezioso, oro – e si trova incastonato fra l’India, la Cina e il Sudest Asiatico,
nel cuore della regione più dinamica dell’economia mondiale.
D. – Quindi, deve
trovare un po’ anche la strada per riuscire ad affrancarsi e sfruttare le proprie
risorse?
R. – Si, ma senza essere sfruttato ancora di più di quanto sia stato
sfruttato finora dalla Cina e dall’India.
D. – Ma, secondo lei, qual è il volto
oggi del Myanmar?
R. – Adesso c’è più libertà, però in certe aree, nello Stato
Shan, per esempio, al Nord, o nello Stato Kachin e quelli confinanti con la Thailandia,
i problemi sono ancora tanti. Ci sono i contadini che chiedono che vengano restituiti
i terreni che gli erano stati tolti. Ci sono i proprietari delle fabbriche che chiedono,
anche loro, quello che era stato confiscato dai militari. Non dobbiamo dimenticare
i cinesi, che stanno operando con grossissimi progetti, firmati e accordati dai militari
nel passato, ma senza una reale trasparenza.