2013-06-05 15:04:05

Il card. Vegliò: gli Stati aprano le porte a chi fugge da guerre e lavoro forzato


Viene presentato questo mercoledì presso la Sala Stampa della Santa Sede il documento “Accogliere Cristo nei rifugiati e nelle persone forzatamente sradicate, orientamenti pastorali”, redatto dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti e dal Pontificio Consiglio Cor Unum. Il testo è stato lo strumento di lavoro della recente plenaria del dicastero per i migranti, dedicata all'impegno pastorale della Chiesa nel contesto delle migrazioni forzate: rifugiati, sfollati, vittime della tratta, del lavoro forzato, bambini soldato. Alla vigilia della presentazione, il cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente di questo pontificio consiglio, spiega perché c’è bisogno di una nuova consapevolezza sul tema. L’intervista è di Fabio Colagrande:RealAudioMP3

D. – Perché secondo il vostro Dicastero c’è bisogno di una nuova consapevolezza circa le varie forme di migrazioni forzate?

R. – La natura delle migrazioni è cambiata. In altri tempi era più facile distinguere tra migranti e rifugiati, migrazioni per motivi di lavoro e migrazioni forzate. La migrazione forzata è costituita da movimenti migratori involontari, legati a minacce di vita. Nuove forme di migrazione forzata sono diventate oggi più evidenti, come la fuga all’interno del proprio Paese, che costringe le persone allo sfollamento interno, oppure coloro che non hanno cittadinanza e, quindi, sono apolidi. Naturalmente, poi, vi è maggiore attenzione alle conseguenze del cambiamento climatico e al deplorevole fenomeno del traffico di esseri umani. Tutto ciò può persino portare a un aumento dei flussi migratori. Si stima che almeno 100 milioni di persone abbiano lasciato le loro case a malincuore. E tutti costoro necessitano di qualche forma di protezione. Per contrasto, osserviamo oggi un atteggiamento più rigido da parte dei governi e dell’opinione pubblica. In effetti, è sempre più forte il tentativo di fermare le persone in fuga, che vorrebbero chiedere asilo in altri Paesi. Sembra che il punto cruciale della questione siano le persone forzate allo sradicamento, piuttosto che i motivi per cui esse sono costrette a fuggire.

D. – In questo documento, la Chiesa rivolge un appello alla cooperazione internazionale. Come lo sintetizzerebbe?

R. – Il documento fa una distinzione a tre livelli: quello dello sviluppo internazionale, quello delle necessità che emergono dopo una guerra civile o il rapido succedersi dell’assistenza in situazioni di emergenza verso realtà di sviluppo organizzato, e infine le condizioni necessarie per far sì che possano essere realizzate soluzioni per l’integrazione o il rimpatrio volontario dei singoli profughi. Tutti dovrebbero ricevere mezzi sufficienti per affrontare le necessità della vita. Tuttavia, esistono disuguaglianze fondamentali nel sistema economico mondiale, che devono essere corrette. L’insegnamento della Chiesa, anche nei suoi interventi presso le Nazioni Unite, copre l’intera gamma dei bisogni quotidiani e attivamente li affronta. Questo esige che si introducano politiche di sradicamento della povertà. La Santa Sede sottolinea, tra gli altri, i seguenti aspetti: mettere al centro del dibattito politico i poveri come persone che hanno uguale dignità, in modo da promuovere la loro partecipazione ai processi decisionali e amministrativi, incrementare i servizi di assistenza pubblica tenendo conto dei poveri in misura prioritaria, onorando l’impegno di raggiungere la quota dello 0,7%, cancellare il debito dei Paesi fortemente indebitati e dei Paesi meno sviluppati, con disposizioni che non li inducano nuovamente in condizioni di indebitamento, promuovere una riforma finanziaria e commerciale per far funzionare i mercati a favore dei Paesi in via di sviluppo, favorire il buon governo e la lotta alla corruzione, diminuire le spese militari, sviluppare ulteriori attività di ricerca e rendere disponibili farmaci contro l’Aids, la tubercolosi, la malaria e altre malattie tropicali. Papa Benedetto XVI ha dato forte enfasi a questi punti in una lettera del 16 dicembre 2006 al Cancelliere Angela Merkel. Situazioni di post-conflitto richiedono che tutti coloro che sono impegnati in attività umanitarie e di sviluppo collaborino per ridurre la povertà e dare concretezza alle risoluzioni adottate. È necessaria una sufficiente piattaforma finanziaria per garantire uno sviluppo sostenibile e il processo di ricostruzione. Il tempo tra la fase di emergenza e il coinvolgimento nella ricostruzione di una società deve essere il più breve possibile. Molte volte, purtroppo, si deve notare che il ritorno volontario dei rifugiati non è né sostenibile né volontario. Le persone dovrebbero essere riportate a casa con dignità e sicurezza. Questo richiede una buona e adeguata formazione scolastica e professionale, servizi sociali di base e corrispondente assistenza sanitaria. Si scopre, invece, che sono le disponibilità finanziarie a determinare la qualità del ritorno. È successo più di una volta che non è stato possibile fornire viveri a sufficienza o appropriate misure contro la malaria, per il fatto che le risorse erano carenti. Il rimpatrio volontario non ha il semplice significato di un ritorno indietro, altrimenti vi è il rischio che le persone passino da una situazione difficile a una vita di miseria nel loro Paese d’origine.

D. – Ritenete che i diritti dei rifugiati e dei richiedenti asilo siano attualmente sufficientemente tutelati?

R. – La Convenzione sui rifugiati del 1951 garantisce sufficientemente i diritti che promuovono il loro benessere. Essi sono abbastanza estesi. Tuttavia, al giorno d’oggi, i governi non rispettano più e non mettono in atto questi diritti. Questo si traduce nella riduzione degli standard umanitari e nell’insorgere di situazioni difficili. L’accesso alla procedura di asilo dovrebbe essere facilitata e, in base a ciò, la chiusura delle frontiere non è una risposta accettabile. Sono state adottate numerose misure per rendere più difficile ottenere l’accesso al territorio dei Paesi Europei e l’avvio della domanda d’asilo. Tale atteggiamento favorisce il contrabbando di persone e porta a situazioni pericolose, ad esempio per gli attraversamenti via mare. Il ricorso alla detenzione dovrebbe durare soltanto il più breve tempo possibile e per motivi ben precisi. Allo stato attuale, invece, si nota che la detenzione è praticata quasi indiscriminatamente. In altre parti del mondo, vi sono governi che non consentono ai rifugiati di lavorare e neppure permettono loro di muoversi liberamente. Il risultato è che i rifugiati rimangono bloccati nei campi profughi in condizioni di dipendenza dalle razioni di cibo. Anche essi hanno il diritto alla casa, al libero esercizio di culto e all’educazione religiosa, solo per citare alcuni dei loro diritti. I Paesi dovrebbero garantire i diritti dei rifugiati e agire secondo lo spirito della Convenzione del 1951, andando incontro a chi è nel bisogno, accogliendolo e trattandolo come si farebbe con cittadini autoctoni. I Paesi dovrebbero rispettare i diritti di coloro che fuggono e dovrebbero accoglierli in modo da onorare gli impegni assunti con la sottoscrizione della Convenzione. Inoltre, la protezione deve essere data anche alle persone nelle diverse forme di migrazione forzata. Questo può variare dalla concessione di un permesso di soggiorno alle vittime del traffico di esseri umani alla possibilità di accedere alla cittadinanza per gli apolidi.

D. – Come valutate l’attuale legislazione internazionale per contrastare la tratta di esseri umani e la sua applicazione concreta?

R. – La legislazione internazionale è vigente. Rimane, però, la questione dell’implementazione e della lotta a tutte le forme di traffico di persone. Il traffico di esseri umani coinvolge almeno 21 milioni di persone ogni anno. Tuttavia, tra il 2007 e il 2010, soltanto contro 12 mila persone in tutto il mondo è stata aperta una procedura legale. Questo senza dubbio fa riflettere. Il traffico di esseri umani avviene sotto molte forme diverse. Va oltre la cosiddetta “industria del sesso”, coinvolgendo il lavoro forzato di uomini, donne e bambini in vari settori come l’edilizia, la ristorazione, la ricettività, l’agricoltura e l’impiego domestico, come pure il traffico per il trapianto di organi, l’obbligo all’accattonaggio e il reclutamento di bambini nei conflitti armati. Le misure adottate dagli Stati si sono concentrate principalmente sulla domanda di sfruttamento sessuale, in particolare di donne e ragazze. Sono state trascurate altre forme di richiesta, come ad esempio la domanda di manodopera sottopagata o lo sfruttamento delle peggiori forme di lavoro minorile. Tuttavia, si confermano gli obblighi degli Stati a prevenire il traffico di persone, a proteggere e sostenere le vittime, a perseguire i colpevoli. Questo esigerebbe l’adozione di normative sul lavoro e la regolamentazione delle condizioni di impiego, con la loro conseguente applicazione. Le cause profonde del traffico di esseri umani vanno oltre la povertà e la disoccupazione. La domanda di manodopera a basso costo, di prodotti a basso prezzo o di “sesso esotico o inusuale” sono anch’essi una delle cause principali di questo turpe fenomeno. Le diverse forme di traffico costituiscono una violazione dei diritti umani, che richiedono approcci distinti e misure efficaci per ripristinare la dignità delle vittime. Come consumatori dobbiamo chiederci come e in quali condizioni questi prodotti sono coltivati o confezionati? Come è possibile che vi siano beni di consumo disponibili a prezzi così stracciati? Anche le multinazionali e le grandi marche hanno la loro responsabilità. A poco a poco, l’attenzione si è spostata verso la Responsabilità Aziendale di Rispettare i Diritti Umani. Alcuni ambiti di commercio hanno introdotto dei codici di condotta. Nel 2001, per esempio, è stato siglato un Codice di condotta per l’industria del cacao e del cioccolato, il cosiddetto “Protocollo Harkin-Engel”. Esso obbliga l’industria a combattere le forme peggiori di lavoro minorile. Attualmente esiste un sistema di certificazione dei prodotti di cacao come esenti da impiego forzato di lavoro minorile. Ma la domanda resta: che tipo di cioccolato compri? La lotta contro il traffico di esseri umani è compito dei governi, delle Ong, dei datori di lavoro e delle imprese, dei sindacati e di tutta l’umanità in generale.

D. – Quanto le comunità ecclesiali devono migliorare l’accoglienza dei rifugiati e delle persone forzatamente sradicate?

R. – La Chiesa non parte da zero. Molti sacerdoti, religiosi e laici sono impegnati in questo apostolato non facile. Nel corso degli anni, sono state create apposite strutture e sono nate Congregazioni religiose per la cura pastorale dei migranti. Sessant’anni fa la Commissione Cattolica Internazionale per le Migrazioni (Icmc) ha iniziato la sua attività con particolare attenzione al reinsediamento, mentre la Caritas è abitualmente presente in situazioni di crisi e di emergenza. Negli anni Settanta del secolo scorso, al tempo dei boat people vietnamiti, è entrato in azione il “Jesuit Refugee Service”, mentre recentemente si è costituita la “Rete Talitha Kum”, che vede soprattutto le religiose in prima linea nella lotta al traffico di esseri umani. Ma c’è ancora molto da fare. Mi pare che sia ancora carente la consapevolezza del grave fenomeno che stiamo vivendo. Le Chiese locali hanno ben presente cosa significhi e quali siano le conseguenze del valore dell’accoglienza, manifestando forte coinvolgimento e impegno. Ma mi domando: cosa sappiamo delle persone e dei motivi che le costringono a fuggire per salvarsi la vita? Ci rendiamo conto che essi sono nostri fratelli e sorelle? Dopo tutto, siamo un’unica famiglia umana. Se qualcuno della nostra famiglia dovesse vivere nelle condizioni di chi scappa per non essere ucciso, cosa faremmo? Nascono domande sul modo corretto di assistere le persone forzatamente sradicate, con quali mezzi possiamo rispondere alle loro necessità materiali e pastorali? Una cosa è certa: le Chiese locali devono essere aiutate a superare diffidenze e pregiudizi. Tra i valori della visione cristiana ci sono, senza dubbio, quelli di salvare vite, restituire la dignità umana, offrire speranza e cercare soluzioni realistiche ai drammi del nostro tempo. Si tratta di una sollecitudine pastorale che riguarda tutti. Per questo è importante che si facciano sforzi concertati per essere presenti e portare conforto ai rifugiati e alle persone forzatamente sradicate. Questo manifesta atteggiamenti di vera accoglienza e comportamenti di autentica ospitalità. Mi pare che, nelle Chiese locali, ci sia bisogno di maggior preparazione per non essere colti alla sprovvista di fronte ad eventi che accadono all’improvviso, come le calamità naturali. Questo si potrebbe fare con più attenzione alla formazione, mediante l’integrazione di questa pastorale specifica nella pastorale ordinaria, ma anche cercando di ottenere fondi sufficienti o con la creazione di un fondo speciale per l’assistenza pastorale delle persone costrette a sfollare. Mi si stringe il cuore quando sento che i Vescovi o i parroci non possono rispondere alle emergenze perché mancano risorse economiche sufficienti. Questo significa che vi saranno persone che non potranno essere raggiunte o saranno costrette a rimanere in situazioni di disagio e di sofferenza. Per quanto possibile, poi, tutti coloro che lo possono fare, devono incoraggiare programmi e politiche migratorie che rispettino e proteggano i diritti umani delle persone che affrontano la migrazione forzata e dei membri delle loro famiglie. Solo così si favorirà una cultura dell’accoglienza, della solidarietà e della pace. E tutto questo, ovviamente, avrà conseguenze immediate per le Chiese di origine, di transito e di destinazione dei flussi migratori. Ricordo, infine, che Papa Francesco ha affermato lo scorso 24 maggio, nell’udienza ai partecipanti alla Plenaria del nostro Pontificio Consiglio: “Non dimenticate la carne di Cristo che è nella carne dei rifugiati: la loro carne è la carne di Cristo!”.







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