Il card. Vegliò: gli Stati aprano le porte a chi fugge da guerre e lavoro forzato
Viene presentato questo mercoledì presso la Sala Stampa della Santa Sede il documento
“Accogliere Cristo nei rifugiati e nelle persone forzatamente sradicate, orientamenti
pastorali”, redatto dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli
Itineranti e dal Pontificio Consiglio Cor Unum. Il testo è stato lo strumento
di lavoro della recente plenaria del dicastero per i migranti, dedicata all'impegno
pastorale della Chiesa nel contesto delle migrazioni forzate: rifugiati, sfollati,
vittime della tratta, del lavoro forzato, bambini soldato. Alla vigilia della presentazione,
il cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente di questo pontificio consiglio,
spiega perché c’è bisogno di una nuova consapevolezza sul tema. L’intervista è di
Fabio Colagrande:
D. – Perché
secondo il vostro Dicastero c’è bisogno di una nuova consapevolezza circa le varie
forme di migrazioni forzate?
R. – La natura delle migrazioni è cambiata. In
altri tempi era più facile distinguere tra migranti e rifugiati, migrazioni per motivi
di lavoro e migrazioni forzate. La migrazione forzata è costituita da movimenti migratori
involontari, legati a minacce di vita. Nuove forme di migrazione forzata sono diventate
oggi più evidenti, come la fuga all’interno del proprio Paese, che costringe le persone
allo sfollamento interno, oppure coloro che non hanno cittadinanza e, quindi, sono
apolidi. Naturalmente, poi, vi è maggiore attenzione alle conseguenze del cambiamento
climatico e al deplorevole fenomeno del traffico di esseri umani. Tutto ciò può persino
portare a un aumento dei flussi migratori. Si stima che almeno 100 milioni di persone
abbiano lasciato le loro case a malincuore. E tutti costoro necessitano di qualche
forma di protezione. Per contrasto, osserviamo oggi un atteggiamento più rigido da
parte dei governi e dell’opinione pubblica. In effetti, è sempre più forte il tentativo
di fermare le persone in fuga, che vorrebbero chiedere asilo in altri Paesi. Sembra
che il punto cruciale della questione siano le persone forzate allo sradicamento,
piuttosto che i motivi per cui esse sono costrette a fuggire.
D. – In questo
documento, la Chiesa rivolge un appello alla cooperazione internazionale. Come lo
sintetizzerebbe?
R. – Il documento fa una distinzione a tre livelli: quello
dello sviluppo internazionale, quello delle necessità che emergono dopo una guerra
civile o il rapido succedersi dell’assistenza in situazioni di emergenza verso realtà
di sviluppo organizzato, e infine le condizioni necessarie per far sì che possano
essere realizzate soluzioni per l’integrazione o il rimpatrio volontario dei singoli
profughi. Tutti dovrebbero ricevere mezzi sufficienti per affrontare le necessità
della vita. Tuttavia, esistono disuguaglianze fondamentali nel sistema economico mondiale,
che devono essere corrette. L’insegnamento della Chiesa, anche nei suoi interventi
presso le Nazioni Unite, copre l’intera gamma dei bisogni quotidiani e attivamente
li affronta. Questo esige che si introducano politiche di sradicamento della povertà.
La Santa Sede sottolinea, tra gli altri, i seguenti aspetti: mettere al centro del
dibattito politico i poveri come persone che hanno uguale dignità, in modo da promuovere
la loro partecipazione ai processi decisionali e amministrativi, incrementare i servizi
di assistenza pubblica tenendo conto dei poveri in misura prioritaria, onorando l’impegno
di raggiungere la quota dello 0,7%, cancellare il debito dei Paesi fortemente indebitati
e dei Paesi meno sviluppati, con disposizioni che non li inducano nuovamente in condizioni
di indebitamento, promuovere una riforma finanziaria e commerciale per far funzionare
i mercati a favore dei Paesi in via di sviluppo, favorire il buon governo e la lotta
alla corruzione, diminuire le spese militari, sviluppare ulteriori attività di ricerca
e rendere disponibili farmaci contro l’Aids, la tubercolosi, la malaria e altre malattie
tropicali. Papa Benedetto XVI ha dato forte enfasi a questi punti in una lettera del
16 dicembre 2006 al Cancelliere Angela Merkel. Situazioni di post-conflitto richiedono
che tutti coloro che sono impegnati in attività umanitarie e di sviluppo collaborino
per ridurre la povertà e dare concretezza alle risoluzioni adottate. È necessaria
una sufficiente piattaforma finanziaria per garantire uno sviluppo sostenibile e il
processo di ricostruzione. Il tempo tra la fase di emergenza e il coinvolgimento nella
ricostruzione di una società deve essere il più breve possibile. Molte volte, purtroppo,
si deve notare che il ritorno volontario dei rifugiati non è né sostenibile né volontario.
Le persone dovrebbero essere riportate a casa con dignità e sicurezza. Questo richiede
una buona e adeguata formazione scolastica e professionale, servizi sociali di base
e corrispondente assistenza sanitaria. Si scopre, invece, che sono le disponibilità
finanziarie a determinare la qualità del ritorno. È successo più di una volta che
non è stato possibile fornire viveri a sufficienza o appropriate misure contro la
malaria, per il fatto che le risorse erano carenti. Il rimpatrio volontario non ha
il semplice significato di un ritorno indietro, altrimenti vi è il rischio che le
persone passino da una situazione difficile a una vita di miseria nel loro Paese d’origine.
D.
– Ritenete che i diritti dei rifugiati e dei richiedenti asilo siano attualmente sufficientemente
tutelati?
R. – La Convenzione sui rifugiati del 1951 garantisce sufficientemente
i diritti che promuovono il loro benessere. Essi sono abbastanza estesi. Tuttavia,
al giorno d’oggi, i governi non rispettano più e non mettono in atto questi diritti.
Questo si traduce nella riduzione degli standard umanitari e nell’insorgere di situazioni
difficili. L’accesso alla procedura di asilo dovrebbe essere facilitata e, in base
a ciò, la chiusura delle frontiere non è una risposta accettabile. Sono state adottate
numerose misure per rendere più difficile ottenere l’accesso al territorio dei Paesi
Europei e l’avvio della domanda d’asilo. Tale atteggiamento favorisce il contrabbando
di persone e porta a situazioni pericolose, ad esempio per gli attraversamenti via
mare. Il ricorso alla detenzione dovrebbe durare soltanto il più breve tempo possibile
e per motivi ben precisi. Allo stato attuale, invece, si nota che la detenzione è
praticata quasi indiscriminatamente. In altre parti del mondo, vi sono governi che
non consentono ai rifugiati di lavorare e neppure permettono loro di muoversi liberamente.
Il risultato è che i rifugiati rimangono bloccati nei campi profughi in condizioni
di dipendenza dalle razioni di cibo. Anche essi hanno il diritto alla casa, al libero
esercizio di culto e all’educazione religiosa, solo per citare alcuni dei loro diritti.
I Paesi dovrebbero garantire i diritti dei rifugiati e agire secondo lo spirito della
Convenzione del 1951, andando incontro a chi è nel bisogno, accogliendolo e trattandolo
come si farebbe con cittadini autoctoni. I Paesi dovrebbero rispettare i diritti di
coloro che fuggono e dovrebbero accoglierli in modo da onorare gli impegni assunti
con la sottoscrizione della Convenzione. Inoltre, la protezione deve essere data anche
alle persone nelle diverse forme di migrazione forzata. Questo può variare dalla concessione
di un permesso di soggiorno alle vittime del traffico di esseri umani alla possibilità
di accedere alla cittadinanza per gli apolidi.
D. – Come valutate l’attuale
legislazione internazionale per contrastare la tratta di esseri umani e la sua applicazione
concreta?
R. – La legislazione internazionale è vigente. Rimane, però, la questione
dell’implementazione e della lotta a tutte le forme di traffico di persone. Il traffico
di esseri umani coinvolge almeno 21 milioni di persone ogni anno. Tuttavia, tra il
2007 e il 2010, soltanto contro 12 mila persone in tutto il mondo è stata aperta una
procedura legale. Questo senza dubbio fa riflettere. Il traffico di esseri umani avviene
sotto molte forme diverse. Va oltre la cosiddetta “industria del sesso”, coinvolgendo
il lavoro forzato di uomini, donne e bambini in vari settori come l’edilizia, la ristorazione,
la ricettività, l’agricoltura e l’impiego domestico, come pure il traffico per il
trapianto di organi, l’obbligo all’accattonaggio e il reclutamento di bambini nei
conflitti armati. Le misure adottate dagli Stati si sono concentrate principalmente
sulla domanda di sfruttamento sessuale, in particolare di donne e ragazze. Sono state
trascurate altre forme di richiesta, come ad esempio la domanda di manodopera sottopagata
o lo sfruttamento delle peggiori forme di lavoro minorile. Tuttavia, si confermano
gli obblighi degli Stati a prevenire il traffico di persone, a proteggere e sostenere
le vittime, a perseguire i colpevoli. Questo esigerebbe l’adozione di normative sul
lavoro e la regolamentazione delle condizioni di impiego, con la loro conseguente
applicazione. Le cause profonde del traffico di esseri umani vanno oltre la povertà
e la disoccupazione. La domanda di manodopera a basso costo, di prodotti a basso prezzo
o di “sesso esotico o inusuale” sono anch’essi una delle cause principali di questo
turpe fenomeno. Le diverse forme di traffico costituiscono una violazione dei diritti
umani, che richiedono approcci distinti e misure efficaci per ripristinare la dignità
delle vittime. Come consumatori dobbiamo chiederci come e in quali condizioni questi
prodotti sono coltivati o confezionati? Come è possibile che vi siano beni di consumo
disponibili a prezzi così stracciati? Anche le multinazionali e le grandi marche hanno
la loro responsabilità. A poco a poco, l’attenzione si è spostata verso la Responsabilità
Aziendale di Rispettare i Diritti Umani. Alcuni ambiti di commercio hanno introdotto
dei codici di condotta. Nel 2001, per esempio, è stato siglato un Codice di condotta
per l’industria del cacao e del cioccolato, il cosiddetto “Protocollo Harkin-Engel”.
Esso obbliga l’industria a combattere le forme peggiori di lavoro minorile. Attualmente
esiste un sistema di certificazione dei prodotti di cacao come esenti da impiego forzato
di lavoro minorile. Ma la domanda resta: che tipo di cioccolato compri? La lotta contro
il traffico di esseri umani è compito dei governi, delle Ong, dei datori di lavoro
e delle imprese, dei sindacati e di tutta l’umanità in generale.
D. – Quanto
le comunità ecclesiali devono migliorare l’accoglienza dei rifugiati e delle persone
forzatamente sradicate?
R. – La Chiesa non parte da zero. Molti sacerdoti,
religiosi e laici sono impegnati in questo apostolato non facile. Nel corso degli
anni, sono state create apposite strutture e sono nate Congregazioni religiose per
la cura pastorale dei migranti. Sessant’anni fa la Commissione Cattolica Internazionale
per le Migrazioni (Icmc) ha iniziato la sua attività con particolare attenzione al
reinsediamento, mentre la Caritas è abitualmente presente in situazioni di crisi e
di emergenza. Negli anni Settanta del secolo scorso, al tempo dei boat people vietnamiti,
è entrato in azione il “Jesuit Refugee Service”, mentre recentemente si è costituita
la “Rete Talitha Kum”, che vede soprattutto le religiose in prima linea nella lotta
al traffico di esseri umani. Ma c’è ancora molto da fare. Mi pare che sia ancora carente
la consapevolezza del grave fenomeno che stiamo vivendo. Le Chiese locali hanno ben
presente cosa significhi e quali siano le conseguenze del valore dell’accoglienza,
manifestando forte coinvolgimento e impegno. Ma mi domando: cosa sappiamo delle persone
e dei motivi che le costringono a fuggire per salvarsi la vita? Ci rendiamo conto
che essi sono nostri fratelli e sorelle? Dopo tutto, siamo un’unica famiglia umana.
Se qualcuno della nostra famiglia dovesse vivere nelle condizioni di chi scappa per
non essere ucciso, cosa faremmo? Nascono domande sul modo corretto di assistere le
persone forzatamente sradicate, con quali mezzi possiamo rispondere alle loro necessità
materiali e pastorali? Una cosa è certa: le Chiese locali devono essere aiutate a
superare diffidenze e pregiudizi. Tra i valori della visione cristiana ci sono, senza
dubbio, quelli di salvare vite, restituire la dignità umana, offrire speranza e cercare
soluzioni realistiche ai drammi del nostro tempo. Si tratta di una sollecitudine pastorale
che riguarda tutti. Per questo è importante che si facciano sforzi concertati per
essere presenti e portare conforto ai rifugiati e alle persone forzatamente sradicate.
Questo manifesta atteggiamenti di vera accoglienza e comportamenti di autentica ospitalità.
Mi pare che, nelle Chiese locali, ci sia bisogno di maggior preparazione per non essere
colti alla sprovvista di fronte ad eventi che accadono all’improvviso, come le calamità
naturali. Questo si potrebbe fare con più attenzione alla formazione, mediante l’integrazione
di questa pastorale specifica nella pastorale ordinaria, ma anche cercando di ottenere
fondi sufficienti o con la creazione di un fondo speciale per l’assistenza pastorale
delle persone costrette a sfollare. Mi si stringe il cuore quando sento che i Vescovi
o i parroci non possono rispondere alle emergenze perché mancano risorse economiche
sufficienti. Questo significa che vi saranno persone che non potranno essere raggiunte
o saranno costrette a rimanere in situazioni di disagio e di sofferenza. Per quanto
possibile, poi, tutti coloro che lo possono fare, devono incoraggiare programmi e
politiche migratorie che rispettino e proteggano i diritti umani delle persone che
affrontano la migrazione forzata e dei membri delle loro famiglie. Solo così si favorirà
una cultura dell’accoglienza, della solidarietà e della pace. E tutto questo, ovviamente,
avrà conseguenze immediate per le Chiese di origine, di transito e di destinazione
dei flussi migratori. Ricordo, infine, che Papa Francesco ha affermato lo scorso 24
maggio, nell’udienza ai partecipanti alla Plenaria del nostro Pontificio Consiglio:
“Non dimenticate la carne di Cristo che è nella carne dei rifugiati: la loro carne
è la carne di Cristo!”.