Si avvia verso la conclusione la 66.ma edizione del Festival di Cannes. Tra gli ultimi
film, “Only lovers left alive” di Jim Jarmush trasporta lo spettatore nella dimensione
contemporanea di uno spazio globalizzato, fatto di luoghi differenti, cuciti insieme
dagli spostamenti veloci degli aerei, dalla mercificazione di ogni cosa, dalla cancellazione
delle differenze, dall’alienazione dei corpi e delle menti. Fra Tangeri e Detroit,
una bizzarra storia di amanti immortali si consuma nei consueti tempi del regista
americano, fra avvenimenti che incidono sull’esistenza dei personaggi e contemplazione
del mondo, sullo sfondo. I suoi vampiri hanno perso tutto lo spirito gotico della
scrittura di Bram Stoker, ma anche le pose assurde del genere horror nell’era del
postmoderno; sono invece delle pure figure di pensiero, gli ultimi ad essere mossi
da una passione autentica. Sono i testimoni muti dell’irresistibile decadenza del
mondo.
È invece ambientata negli spazi scenici del teatro “La venus a la fourrure”
di Roman Polanski, racconto breve e folgorante della trasformazione di una persona
in personaggio. Ne sono protagonisti un regista e un’aspirante attrice, che s’incontrano
al termine di una logorante giornata di audizioni. Il regista è stanco e sfiduciato,
l’attrice è quanto di più lontano lui spererebbe incontrare. È volgare, scatenata,
disposta a tutto pur di avere quel ruolo. Lui preferirebbe soprassedere, lei insiste.
Di malavoglia lui accetta. E sotto i suoi occhi, poco a poco una straordinaria metamorfosi
ha luogo. Cinema da camera, “La venus a la fourrure” ha nei corpi recitanti di Mathieu
Amalric e Emmanuelle Seigner i suoi punti forti, ma la scrittura registica, i tempi
sorprendenti della messa in scena, l’umorismo assurdo insito nel dramma delle relazioni
umane appartengono del tutto al patrimonio artistico di Polanski.
Resta fedele
al suo stile e alle sue atmosfere anche Alexander Payne, che in “Nebraska” fa un ritratto
agrodolce della provincia americana, dei suoi tempi sospesi, della sua memoria, del
misto di generosità e meschineria che la contraddistingue. Protagonista un vecchio
cocciuto, sicuro di aver vinto un milione di dollari e deciso a ritirare il premio,
nonostante tutti gli facciano presente come la lettera che ha ricevuto faccia parte
di una ben orchestrata e un po’ truffaldina campagna di marketing. In viaggio con
il figlio verso la sospirata fortuna, l’uomo fa tappa nella cittadina del Nebraska
dove è nato e ha vissuto la sua giovinezza. L’incontro con la famiglia, gli antichi
amici, i luoghi della sua infanzia riveleranno al figlio un padre ben diverso da quello
che lui ha sempre conosciuto. Payne racconta in scioltezza e con simpatia le vicende
dei piccoli uomini senza importanza. Ogni tanto ha improvvisi scatti di umorismo o
di commozione. Il film scorre lento e lineare, come i paesaggi che attraversa o le
vite che racconta. La musica avvolge quietamente il tutto.
Con Michael Kohlaas,
Arnaud Des Pallières attua invece un’operazione avvincente e coraggiosa, adattando
il romanzo omonimo di Heinrich von Kleist e ambientandolo nella regione francese
delle Cevennes, teatro di guerre di religione nel XVI e XVII secolo. Lo fa cercando
di rendere con un ammirabile spirito di sintesi la scrittura nervosa e dura di von
Kleist e al tempo stesso l’insaziabile sete di giustizia del protagonista, interpretato
da un carismatico Mads Mikkelsen. Kohlhaas, vittima di un torto ad opera di un barone,
cerca una riparazione presso la corte. Umiliato e punito per questo suo atto, sarà
l’eroe di una sollevazione contadina che rischierà di mettere in ginocchio la corona.
Otterrà giustizia, ma pagherà la colpa della sua ribellione con la morte.
Giustizia,
amore, colpa e redenzione sono anche gli ingredienti di “The immigrant” di James Gray.
Qui una giovane polacca e sua sorella arrivano in America alla fine della prima guerra
mondiale. Sono stremate dagli orrori e dalla povertà. Sognano un mondo migliore. L’una
dovrà restare in isolamento a causa della tubercolosi, l’altra sarà indotta alla prostituzione
per necessità. L’uomo che la guida in questo percorso di perdizione è un essere oscuro,
abitato da sentimenti contraddittori. Al tempo stesso l’ama e la trascina nel fango.
La lotta atroce per la sopravvivenza è ciò che aspetta tutti i migranti. Lui ne è
un demiurgo. Nel bene e nel male. La salvezza finale della ragazza passa attraverso
tre momenti di confessione, che sono tutta la forza emotiva del film. Redimersi dal
male ha una potenza evocativa senza limiti. (Da Cannes, Luciano Barisone)