Testo integrale della meditazione di Papa Francesco durante la Professione di fede
dell'episcopato italiano
Questo il testo integrale della meditazione pronunciata da Papa Francesco durante
la solenne Professione di fede dell’Episcopato italiano.
Cari Fratelli nell'Episcopato, Le
Letture bibliche che abbiamo sentito ci fanno riflettere. A me hanno fatto riflettere
tanto. Ho fatto come una meditazione per noi Vescovi, prima per me, Vescovo come voi,
e la condivido con voi. E’ significativo - e ne sono particolarmente contento - che
il nostro primo incontro avvenga proprio qui, sul luogo che custodisce non solo la
tomba di Pietro, ma la memoria viva della sua testimonianza di fede, del suo servizio
alla verità, del suo donarsi fino al martirio per il Vangelo e per la Chiesa. Questa
sera questo altare della Confessione diventa così il nostro lago di Tiberiade, sulle
cui rive riascoltiamo lo stupendo dialogo tra Gesù e Pietro, con l’interrogativo indirizzato
all’Apostolo, ma che deve risuonare anche nel nostro cuore di Vescovi.
«Mi
ami tu?»; «Mi sei amico?» (cfr Gv 21,15ss).
La domanda è rivolta a un uomo
che, nonostante solenni dichiarazioni, si era lasciato prendere dalla paura e aveva
rinnegato.
«Mi ami tu?»; «Mi sei amico?».
La domanda è rivolta a me
e a ciascuno di noi, a tutti noi: se evitiamo di rispondere in maniera troppo affrettata
e superficiale, essa ci spinge a guardarci dentro, a rientrare in noi stessi.
«Mi
ami tu?»; «Mi sei amico?».
Colui che scruta i cuori (cfr Rm 8,27) si fa mendicante
d'amore e ci interroga sull'unica questione veramente essenziale, premessa e condizione
per pascere le sue pecore, i suoi agnelli, la sua Chiesa. Ogni ministero si fonda
su questa intimità con il Signore; vivere di Lui è la misura del nostro servizio ecclesiale,
che si esprime nella disponibilità all'obbedienza, all'abbassamento, come abbiamo
sentito nella Lettera ai Filippesi, e alla donazione totale (cfr 2,6-11).
Del
resto, la conseguenza dell'amare il Signore è dare tutto - proprio tutto, fino alla
stessa vita - per Lui: questo è ciò che deve distinguere il nostro ministero pastorale;
è la cartina di tornasole che dice con quale profondità abbiamo abbracciato il dono
ricevuto rispondendo alla chiamata di Gesù e quanto ci siamo legati alle persone e
alle comunità che ci sono state affidate. Non siamo espressione di una struttura o
di una necessità organizzativa: anche con il servizio della nostra autorità siamo
chiamati a essere segno della presenza e dell'azione del Signore risorto, a edificare,
quindi, la comunità nella carità fraterna.
Non che questo sia scontato: anche
l'amore più grande, infatti, quando non è continuamente alimentato, si affievolisce
e si spegne. Non per nulla l'Apostolo Paolo ammonisce: «Vegliate su voi stessi e su
tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi
per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio
Figlio» (At 20,28).
La mancata vigilanza - lo sappiamo - rende tiepido il Pastore;
lo fa distratto, dimentico e persino insofferente; lo seduce con la prospettiva della
carriera, la lusinga del denaro e i compromessi con lo spirito del mondo; lo impigrisce,
trasformandolo in un funzionario, un chierico di stato preoccupato più di sé, dell'organizzazione
e delle strutture, che del vero bene del Popolo di Dio. Si corre il rischio, allora,
come l’Apostolo Pietro, di rinnegare il Signore, anche se formalmente ci si presenta
e si parla in suo nome; si offusca la santità della Madre Chiesa gerarchica, rendendola
meno feconda.
Chi siamo, Fratelli, davanti a Dio? Quali sono le nostre prove?
Ne abbiamo tante; ognuno di noi sa le sue. Che cosa ci sta dicendo Dio attraverso
di esse? Su che cosa ci stiamo appoggiando per superarle?
Come per Pietro,
la domanda insistente e accorata di Gesù può lasciarci addolorati e maggiormente consapevoli
della debolezza della nostra libertà, insidiata com'è da mille condizionamenti interni
ed esterni, che spesso suscitano smarrimento, frustrazione, persino incredulità.
Non
sono certamente questi i sentimenti e gli atteggiamenti che il Signore intende suscitare;
piuttosto, di essi approfitta il Nemico, il Diavolo, per isolare nell'amarezza, nella
lamentela e nello scoraggiamento.
Gesù, buon Pastore, non umilia né abbandona
al rimorso: in Lui parla la tenerezza del Padre, che consola e rilancia; fa passare
dalla disgregazione della vergogna – perché davvero la vergogna ci disgrega - al tessuto
della fiducia; ridona coraggio, riaffida responsabilità, consegna alla missione.
Pietro,
che purificato al fuoco del perdono può dire umilmente «Signore, tu conosci tutto;
tu sai che ti voglio bene» (Gv 21,17). Sono sicuro che tutti noi possiamo dirlo di
cuore. E Pietro purificato, nella sua prima Lettera ci esorta a pascere «il gregge
di Dio [...], sorvegliandolo non perché costretti ma volentieri [...], non per vergognoso
interesse, ma con animo generoso, non come padroni delle persone a noi affidate, ma
facendoci modelli del gregge» (1Pt 5,2-3).
Sì, essere Pastori significa credere
ogni giorno nella grazia e nella forza che ci viene dal Signore, nonostante la nostra
debolezza, e assumere fino in fondo la responsabilità di camminare innanzi al gregge,
sciolti da pesi che intralciano la sana celerità apostolica, e senza tentennamenti
nella guida, per rendere riconoscibile la nostra voce sia da quanti hanno abbracciato
la fede, sia da coloro che ancora «non sono di questo ovile» (Gv 10,16): siamo chiamati
a far nostro il sogno di Dio, la cui casa non conosce esclusione di persone o di popoli,
come annunciava profeticamente Isaia nella Prima Lettura (cfr Is 2,2-5).
Per
questo, essere Pastori vuol dire anche disporsi a camminare in mezzo e dietro al gregge:
capaci di ascoltare il silenzioso racconto di chi soffre e di sostenere il passo di
chi teme di non farcela; attenti a rialzare, a rassicurare e a infondere speranza.
Dalla condivisione con gli umili la nostra fede esce sempre rafforzata: mettiamo da
parte, quindi, ogni forma di supponenza, per chinarci su quanti il Signore ha affidato
alla nostra sollecitudine. Fra questi, un posto particolare, ben particolare, riserviamolo
ai nostri sacerdoti: soprattutto per loro, il nostro cuore, la nostra mano e la nostra
porta restino aperte in ogni circostanza. Loro sono i primi fedeli che abbiamo noi
Vescovi: i nostri sacerdoti. Amiamoli! Amiamoli di cuore! sono i nostri figli e i
nostri fratelli!
Cari fratelli, la professione di fede che ora rinnoviamo insieme
non è un atto formale, ma è rinnovare la nostra risposta al “Seguimi” con cui si conclude
il Vangelo di Giovanni (21,19): porta a dispiegare la propria vita secondo il progetto
di Dio, impegnando tutto di sé per il Signore Gesù. Da qui sgorga quel discernimento
che conosce e si fa carico dei pensieri, delle attese e delle necessità degli uomini
del nostro tempo.
Con questo spirito, ringrazio di cuore ciascuno di voi per
il vostro servizio, per il vostro amore alla Chiesa. E la Madre è qui! Vi pongo,
e anche io mi pongo, sotto il manto di Maria, Nostra Signora.
Madre del silenzio,
che custodisce il mistero di Dio, liberaci dall'idolatria del presente, a cui si
condanna chi dimentica. Purifica gli occhi dei Pastori con il collirio della memoria: torneremo
alla freschezza delle origini, per una Chiesa orante e penitente.
Madre della
bellezza, che fiorisce dalla fedeltà al lavoro quotidiano, destaci dal torpore
della pigrizia, della meschinità e del disfattismo. Rivesti i Pastori di quella
compassione che unifica e integra: scopriremo la gioia di una Chiesa serva, umile
e fraterna.
Madre della tenerezza, che avvolge di pazienza e di misericordia, aiutaci
a bruciare tristezze, impazienze e rigidità di chi non conosce appartenenza. Intercedi
presso tuo Figlio perché siano agili le nostre mani, i nostri piedi e i nostri cuori:
edificheremo la Chiesa con la verità nella carità.
Madre, saremo il Popolo
di Dio, pellegrinante verso il Regno. Amen.
Prima dell'omelia, il Santo Padre
dopo l’indirizzo di saluto del Cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza
episcopale italiana, ha pronunciato le seguenti parole:
Ringrazio Vostra Eminenza
per questo saluto e complimenti anche per il lavoro di questa Assemblea. Grazie tante
a tutti voi. Io sono sicuro che il lavoro è stato forte perché voi avete tanti compiti.
Primo: la Chiesa in Italia – tutti - il dialogo con le istituzioni culturali, sociali,
politiche, che è un compito vostro e non è facile. Anche il lavoro di fare forte le
Conferenze regionali, perché siano la voce di tutte le regioni, tanto diverse; e questo
è bello. Anche il lavoro, io so che c’è una Commissione per ridurre un po’ il numero
delle diocesi tanto pesanti. Non è facile, ma c’è una Commissione per questo. Andate
avanti con fratellanza, la Conferenza episcopale vada avanti con questo dialogo, come
ho detto, con le istituzioni culturali, sociali, politiche. E’ cosa vostra. Avanti!