Sentimenti a rappresentare la società: entra nel vivo la 66.ma edizione del Festival
di Cannes
Il 66.mo Festival di Cannes comincia a prendere una sua precisa fisionomia. Dopo un
inizio in cui i film, attraverso la rappresentazione delle azioni umane, arrivavano
a rivelare l’intima struttura della società, improvvisamente sugli schermi della Croisette
sono esplosi i sentimenti, in primo luogo l’amore, inteso come chimica elementare
dei corpi e dello spirito. L’esplorazione delle dinamiche interiori è parte integrante
di due opere importanti come “Jimmy P. (Psychotherapy of a Plains Indian)” di Arnaud
Desplechin e “Inside Llewyn Davis” di Ethan e Joel Coen. Il primo è la cronaca del
trattamento psicoanalitico applicato a un indiano d’America da parte di un antropologo
francese, il secondo la storia agrodolce di un cantante folk degli anni Sessanta.
Facendo duettare in maniera convincente due grandi attori come Benicio Del Toro e
Mathieu Amalric, Desplechin ci introduce con uno sguardo nuovo in un mondo sconosciuto,
quello delle culture ancestrali dei pellerossa. I due cineasti americani tratteggiano
con qualche sorriso e molta tristezza la parabola di un fallimento umano e professionale.
L’amore sta invece al centro di due film straordinari, come “Le passé” di Asghar Farhadi
e “Like Father, Like Son” di Kore-eda Hirokazu. Il primo ne fa una precisa anatomia,
attraverso il racconto avvincente e complesso della fine di un matrimonio. Lui arriva
da Teheran a Parigi per firmare il suo consenso al divorzio. Lei lo aspetta come una
vecchia conoscente, insieme ai figli di un precedente marito, al bimbo del suo attuale
compagno e quello che porta in grembo. La cosa sembra fatta di lì a breve. Ma il peso
dei sentimenti e l’irresistibile forza del passato renderanno tutto molto più difficile.
Utilizzando un dispositivo già adottato in due film come “About Elly” e “Una separazione”
- un teatro da camera basato sul pedinamento dei corpi - il cineasta iraniano mette
in scena una sorta di investigazione dove il colpevole non esiste e tutti sono vittime,
vittime delle aspettative, dei desideri delusi, delle ferite dell’anima. In una «no
man’s land» geografica - Parigi è là ma si scorge appena - i personaggi sono perduti
nella colpa, nel rancore, nella paura, nel dolore. Alla fine, tutto sta ancora nei
dettagli, nei minimi gesti di umanità e di speranza, ben più forti delle parole, del
non detto, dei torti, delle ragioni. La vita vince sempre, anche se non ci rivela
mai i suoi perché. Una domanda percorre invece “Like Father, Like Son” di Kore-eda
Hirokazu. Dove nasce l'amore? Dal sangue o dalla consuetudine? Il film racconta in
maniera romanzata un fatto di cronaca. Un architetto, arrivista e benestante, scopre
che il figlio che sta preparando in maniera pressoché scientifica a una carriera luminosa,
non è il suo. Sei anni prima nella clinica dove è nato c’è stato uno scambio di neonati.
Individuata la coppia coinvolta nello scambio – una coppia di modesta estrazione sociale
dove regna il piacere di stare insieme - una scelta s’impone: rimettere le cose a
posto, privilegiando il legame di sangue, o lasciare tutto come sta, assecondando
un sentimento che si è creato negli anni? Una tale storia è per il regista giapponese
l’occasione di una prospezione in profondità nella cultura in mutazione del suo Paese
e dei sentimenti che la agitano. Fra perdenti e vincenti del nuovo corso dell’ordine
mondiale, il cineasta sceglie l’umanità degli umili e dei sognatori contro l’arroganza
delle nuove classi dirigenti. Lo fa non con proclami urlati, ma passando attraverso
lo sguardo muto dei bambini. In fondo, anche una semplice fotografia scattata da un
figlio può curare le ferite dell’anima. (Da Cannes, Luciano Barisone)
Bollettino
del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVII no. 139