Il bilancio del crollo in Bangladesh: 1.127 morti e oltre 2.000 feriti
1.127 morti e oltre 2.000 feriti. E’ il tragico bilancio del crollo, il 24 aprile
scorso a Dacca in Bangladesh, dello stabile “Rena Plaza”, che ospitava diverse aziende
tessili. Ieri sono terminate le operazioni di soccorso mentre il governo apre la strada
ad una maggiore rappresentanza sindacale. Il servizio di Debora Donnini:
Con 1.127 morti
e 176 persone ancora disperse si chiude la vicenda dello stabile crollato a Dacca
il 24 aprile. Nelle aziende tessili, locali e straniere, ospitate nell’edificio, lavoravano
centinaia di persone in condizioni disumane. Intanto circa 300 aziende dell’area industriale
di Ashulia hanno chiuso i battenti a tempo indeterminato a causa delle proteste dei
dipendenti e il governo ha deciso che autorizzerà la creazione di nuovi sindacati
per preservare i diritti dei lavoratori. Entro domani, poi, dovrebbe essere sottoscritto
dalle imprese occidentali presenti nel paese il “Bangladesh Fire and Building Safety',
che prevede alcune condizioni dettate dai sindacati: ispezioni indipendenti negli
uffici, formazione dei lavoratori sui loro diritti e revisioni delle norme di sicurezza,
che però al momento trovano lo scetticismo di alcuni brand statunitensi. Sì invece
all’accordo sulla sicurezza sono arrivati da alcune aziende europee come Benetton,
Inditex, Zara e Tchibo. Questo non è il primo incidente nel’industria tessile in
Bangladesh, che rappresenta l’80% delle esportazioni nel paese grazie al bassissimo
costo della manodopera, una delle peggio retribuite al mondo.
E sulla situazione,
Giancarlo La Vella ha intervistato l’economista Riccardo Moro:
R. – Purtroppo,
è un fatto noto da molti anni che le condizioni di vita in una parte rilevante del
Sud del mondo, che rappresenta la stragrande maggioranza della popolazione mondiale,
sono molto pesanti. E la cosa che va fatta notare è che queste dure condizioni di
lavoro non sono indirizzate alla produzione di beni che vengono consumati in loco,
ma che sono molto spesso consumati dal Nord del mondo, cioè da noi. In modo particolare,
in questo caso del Bangladesh, quello che è capitato è stato un disastro in un’industria
tessile, che lavorava per i marchi che noi conosciamo e che compriamo tutti i giorni,
presenti in tutte le parti del mondo.
D. – Lo sviluppo di una coscienza sociale,
anche sindacale, può portare ad un progresso in questo senso, ad un avvicinamento
tra i parametri occidentali e quelli dei Paesi asiatici?
R. - Io credo che
da un lato siano assolutamente necessarie attività che favoriscano l’irrobustimento
del ruolo delle organizzazioni che operano per la tutela dei lavoratori. Dall’altro
lato, occorre una nuova coscienza civile, sia da parte dei consumatori, sia da parte
degli operatori economici, per garantire che i prodotti, che vengono venduti in giro
per il mondo, abbiano una "storia" in cui le persone sono realmente rispettate. Da
questo punto di vista, bisogna dire che proprio la vicenda del disastro sta effettivamente
producendo qualche risultato positivo in Bangladesh. Insomma, dal disastro abbiamo
di fronte a noi un esempio relativamente positivo di assunzione di responsabilità,
anche se non basta.
D. - Quali ricadute sull’economia globale potrebbe avere
il riconoscimento pieno o parziale dei diritti dei lavoratori asiatici, sia per quanto
riguarda la sicurezza, sia per quanto riguarda il riconoscimento economico?
R.
– Io credo ci sia stata una corsa a fornire ai consumatori del Nord del mondo prodotti
a basso prezzo. Questa corsa è stata realizzata utilizzando impianti produttivi non
sicuri nel Sud del mondo, cioè sfruttando le zone di povertà del pianeta, dove le
persone sono disposte a lavorare anche a bassissimi compensi, sostanzialmente a essere
sfruttate, addirittura mettendo a repentaglio la propria vita. Un irrobustimento delle
tutele che determinano maggiori sicurezze, maggiori salari e maggiori costi, evidentemente
determina una minore competitività di questi prodotti. Quanto durerà questo processo
è assolutamente impossibile dirlo. L’augurio è che duri il meno possibile, perché
questo significherebbe che nel più breve tempo possibile abbiamo garantito maggiori
tutele a milioni di lavoratori.