Merkel: truppe tedesche in Afghanistan oltre il 2014 se anche altri resteranno
Non si vuole abbandonare l’Afghanistan né gli afghani. Si potrà pensare a restare
oltre il 2014 a condizione che ci sia un processo politico adeguato e se altri lo
faranno. E’ stato l’impegno assunto dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, che ieri
si è recata a sorpresa in Afghanistan. Secondo quanto dichiarato dal presidente afghano
Karzai, diversi Paesi della Nato avrebbero chiesto di mantenere una presenza militare
nel Paese oltre la data prevista dalla missione Isaf. Gli Stati Uniti a loro volta
avevano indicato di essere pronti a tenere alcune basi, ma solo su invito del governo
di Kabul. Attualmente in Afghanistan si trovano circa 100mila soldati stranieri sotto
l’egida della Nato. Perché si sta sempre più indicando questa strada, nonostante i
talebani abbiano chiarito che il processo di pace è subordinato al ritiro incondizionato
delle truppe straniere? Francesca Sabatinelli lo ha chiesto a Natalino Ronzitti,
ordinario di Diritto Internazionale presso l’Università Luiss di Roma e consigliere
scientifico dell’Istituto Affari Internazionali:
R. – Si sta
profilando questa necessità, perché la situazione non è risolta e risulta intrattabile.
Il governo attualmente al potere - il governo Karzai - rappresenta solo una piccola
parte dell’Afghanistan, cioè la capitale e dintorni. Tutte le premesse che c’erano
prima dell’installazione del governo Karzai ancora sussistono. Il problema è vedere
se il mantenimento delle truppe sia la migliore soluzione o meno.
D. – E secondo
lei, professore, potrebbe esserlo?
R. – Sono stati fatti grandi sforzi, anche
per quanto riguarda quello che viene chiamato il “post conflict peace building”, la
ricostruzione del Paese, ma purtroppo questi sforzi non sono andati a buon fine e
probabilmente occorrerà fare un investimento ancora più incisivo, non tanto per quanto
riguarda le organizzazioni regionali, quanto per quello che riguarda l’Onu. Ovviamente
queste forze sono presenti in Afghanistan su autorizzazione del Consiglio di Sicurezza,
ma probabilmente occorre un intervento diretto da parte delle Nazioni Unite.
D.
– Un intervento diretto, quindi, che cosa comporterebbe? Ancora un impegno di tipo
militare?
R. – No, non significa necessariamente un intervento di carattere
militare, significa un intervento di ricostruzione del Paese e di pacificazione, un
intervento classico di “peace building”, dove ci sia una rappresentanza della comunità
internazionale nel suo insieme, che non faccia percepire questo intervento come un
interevento esclusivamente di natura occidentale. Poi, per quanto riguarda una partecipazione
italiana, è bene che si faccia una riflessione e che la partecipazione italiana sia
decisa dal Parlamento italiano.