Media israeliani confermano raid aereo sulla Siria. Obama: no all'intervento militare
Crisi siriana: la comunità internazionale in allerta dopo la conferma da parte di
alcuni media-on line di Gerusalemme di un’incursione aerea israeliana con 16 caccia,
in territorio siriano, nella notte tra giovedì e venerdì. L’obiettivo pare fosse un
deposito di missili sofisticati per armi chimiche, destinati al movimento sciita libanese
di Hezbollah. Il presidente Usa Obama conferma un cambio di strategia, ma dice "no"
per ora ad un intervento militare in Siria. Sul terreno un nuovo massacro a Banìas
dove si contano 150 morti nelle ultime 24 ore, bombardato anche l’aeroporto di Damasco.
Oggi intanto il presidente Assad è riapparso in pubblico. Ma come leggere questo raid
israeliano? Cecilia Seppia lo ha chiesto a Riccardo Redaelli, docente
di Storia e Istituzioni del mondo islamico all’Università Cattolica di Milano:
R. - Questo
è un fatto assolutamente grave, ma del resto del tutto prevedibile: Israele aveva
sempre sottolineato come priorità la sua necessità di difendersi e per Israele, come
sappiamo, la difesa è molto estensiva: non è tanto - come dire - impedire all’esercito
regolare di usare armi, ma evitare che armi - probabilmente armi chimiche o non convenzionali
come in questo caso - possano cadere nelle mani degli insorti e soprattutto del Jabhat
al Nusra, cioè la parte più forte dell’opposizione siriana, che è estremista e legata
ai movimenti jihadisti. La reazione di Assad, ovviamente, non si può prevedere, può
essere a livello retorico molto forte, ma a livello militare molto limitata.
D.
- Su questo attacco, si allunga quindi l’ombra delle armi chimiche. Una questione
di cui si parla da tempo, confermata nei giorni scorsi anche dalla Casa Bianca. Obama
ha promesso un cambio di strategia per la Siria: si parla sia di armare i ribelli,
sia - diciamo così - di un’azione diplomatica più forte, contro il regime. Però Obama
ha ribadito il “no” ad un intervento militare statunitense in Siria: perché questo
“no”?
R. - Per molte ragioni. La prima è perché gli Stati Uniti, dopo il disastro
iracheno e essendo ancora impegolati in Afghanistan, non hanno alcuna intenzione di
entrare in un conflitto che si preannuncerebbe estremamente difficile; poi perché
la Siria è protetta in sede Onu da Russia e Cina; e poi perché gli americani si stanno
rendendo conto che, all’inizio, hanno sostenuto l’opposizione siriana senza se e senza
ma, ma questa opposizione sta sempre più cambiando natura: entrare in un conflitto
in Siria significa oggi aiutare quei movimenti, quegli stessi combattenti che per
anni hanno ammazzato i soldati americani in Iraq e in Afghanistan. Questa è la realtà
crescente: la trasformazione dell’opposizione che è sempre più spinta verso l’estremismo
jihadista. Ben venga, invece, un’azione diplomatica più forte e più concertata, ma
a tutti i livelli.
D. - La Comunità internazionale, quindi, sta continuando
ad agire secondo la logica del controllo, della prudenza. Di fatto in Siria, però,
ci sono diverse emergenze: quella umanitaria e quella più interna di questa "talebanizzazione"
- a cui accennava, appunto, anche lei - che rischia di creare degli attriti con i
governi occidentali, ma anche dei rischi per la popolazione…
R. - Certo. Purtroppo
ci sono molte emergenze. C'è un milione ormai di profughi esterni e interni; ci sono
comunità, come le minoranze alawita e cristiana, che subiscono il governo di Assad
e che temono in realtà un suo eventuale crollo, perché si sa che i gruppi più estremisti
predicano lo sterminio degli alawiti e la cacciata dei cristiani siriani verso il
Libano. Tutto questo impone attenzione, ma anche estrema prudenza.