Dacca, salgono a 500 i morti del crollo. La testimonianza di un missionario
A nove giorni dal crollo della fabbrica alla periferia di Dacca in Bangladesh, sale
a 500 il bilancio delle vittime rimaste sotto le macerie, i feriti ammontano ad oltre
un migliaio e decine di persone risultano ancora disperse. Ma questo tragico incidente
rappresenta solo la miccia che ha fatto esplodere tensioni sotterranee che toccano
la sfera politica e sociale oltre che le questioni attinenti alla sicurezza e alle
garanzie dei lavoratori. Gea Finelli ha intervistato padreSilvano
Garello, missionario Saveriano che vive da 40 anni a Dacca:
R. – Si stanno
arroventando tanti problemi: problemi politici, economici, sociali, religiosi. Il
Bangladesh, quindi, non vede un facile sbocco a questi problemi. Una soluzione, nelle
nostre solite parole, sarebbe una riconciliazione. Si può dire che i vari gruppi restino
troppo sulle loro posizioni e non ci sia dialogo. Questo dispiace, perché effettivamente
i problemi sono gravi, ma bisogna trovare soluzioni comuni. Per me la domanda è: “Chi
potrebbe fare da mediatore in questa situazione?”. Non si vede una personalità saggia
e anche capace di esercitare questo ruolo.
D. – A otto giorni dal crollo,
montano le polemiche sulla sicurezza delle centinaia di edifici-fabbrica presenti
in Bangladesh e anche sui salari bassissimi dei lavoratori, che si aggirano intorno
ai 40 dollari al mese...
R. – Anche il Papa ha richiamato l’attenzione e parlava
addirittura di 38 dollari. Questi operai vivono in condizione di schiavitù. Il Bangladesh
è così povero che accetta le più basse proposte possibili per poter competere, altrimenti
si rivolgono al Vietnam, alla Cina e così via. Sono ricattati da tutte le parti. L’altro
aspetto è che bisognerebbe che anche quelli che vengono a fare dei contratti considerino
non solo questa facilità di avere lavoro a basso prezzo, ma considerino anche la responsabilità
di dare una mano per risolvere i problemi sociali.
D. – Le vittime del crollo
producevano abiti per le grandi marche mondiali, da Benetton a Gap...
R. –
Sì, e penso che sia stato anche una buona cosa sentire che alcune compagnie si siano
offerte per aiutare specialmente le persone ferite, che hanno bisogno di riabilitazione.
Molti di loro, forse, non potranno più lavorare: hanno perso gli arti, le gambe, le
mani...
R. – Tutte queste aziende occidentali erano pronte a delegare la loro
produzione a fabbriche in Paesi in via di sviluppo. Cosa potrebbero fare le multinazionali
occidentali per migliorare la situazione in Bangladesh?
R. – Le multinazionali
devono arrivare al punto di considerare il prezzo umano di tutti i loro interventi.
Dare lavoro, pagare chi lavora, guardare le condizioni di chi lavora, penso che faccia
parte della loro responsabilità.
D. – Il Papa qualche giorno fa ha rivolto
una preghiera per le vittime del crollo della fabbrica in Bangladesh. Che tipo di
azione svolgete voi padri saveriani in questo Paese per aiutare la popolazione in
difficoltà?
R. – Noi, come Missionari saveriani, abbiamo non solo un compito
generico di evangelizzazione, ma abbiamo anche alcune iniziative che toccano i problemi
vivi dell’uomo. Per esempio, qualcuno di noi si dedica ai bambini di strada. Padre
Giovanni Abbiati nel passato ha avviato una collaborazione internazionale per dare
lavoro alle donne attraverso l’handicraft, un tipo di artigianato molto semplice,
e ciò ha portato dei frutti. Il Papa, giustamente, ha detto: “Bisogna stare attenti,
la Chiesa non è un’ong benevola”. Allora, però, questo insegnamento sociale della
Chiesa, in concreto, noi come lo possiamo applicare? Per mio conto, ci tocca prima
di tutto personalmente ed è chiaro che non possiamo permetterci di vivere da ricchi
in un Paese povero.