Islanda: netta vittoria del centrodestra, un voto contro l’austerity e l’Ue
In Islanda, è netta la vittoria dell'opposizione di centrodestra alle elezioni legislative
tenutesi sabato scorso. Ai conservatori del Partito dell'Indipendenza va il 26,7%
dei consensi, cioè 19 seggi in parlamento. L’Alleanza dei socialdemocratici e il Movimento
di Sinistra-Verde, saliti al potere nel 2009, dimezzano i parlamentari. Il voto si
oppone all’accelerazione nel processo di adesione all’Ue e soprattutto punisce le
misure di austerità che, dopo il balzo del debito estero a 50 miliardi, hanno permesso
all'isola di uscire dalla recessione, con un pil in salita e una disoccupazione in
calo. Un’analisi nel voto nell’intervista di Fausta Speranza con Giandonato
Caggiano, direttore del Dipartimento sull’Ue dell’Università Tor Vergata:
R. - L’Islanda
sta pagando il suo debito: ha semplicemente diversificato la restituzione di crediti
cittadini olandesi e inglesi, ma ha proceduto a questo pagamento. Questa banca si
chiamava “Ice-save” ed era una banca che nel momento di crisi avrebbe comportato una
bancarotta per tutto il Paese. Questa restituzione avviene e continua: è stato restituito
quasi il 90%.
D. - Quindi, questo è un voto prettamente politico secondo lei:
è un voto davvero contro l’avanzamento in Europa?
R. - L’Islanda ha nazionalizzato
le banche, facendo assumere in prima persona ai contribuenti la responsabilità del
vecchio sistema bancario, che era privatizzato, in primis sotto forma di spending
review, in particolare per quello che riguarda il welfare, molto forte in quel
Paese. Tagliare la spesa sociale non fa mai piacere a nessuno. E’ un costo che stanno
pagando tutti gli Stati e certamente questa è una delle molle che ha portato al cambiamento
dei partiti di governo, in atto a livello globale.
D. - Troppo spesso, forse
ragioniamo in termini di Europa del nord assolutamente efficiente e soprattutto rigorosa
sui conti, a fronte di un’Europa mediterranea che invece spende e spande ed è “pasticciona”.
Invece, la situazione è un po’ più complessa: anche il Nord Europa sta passando e
ha passato - come nel caso dell’Islanda - fasi particolari di economia…
R.
- La crisi è globale, tocca tutti: il Regno Unito sta riducendo drasticamente il welfare,
la protezione sociale, l’assistenza sociale. La crisi riguarda anche la Germania.
C’è un momento in cui l’economia si ferma e chi non ha avuto una recessione di certo
non cresce. Questo aspetto dell’Islanda sottolinea piuttosto il fastidio che hanno
i cittadini quando sono chiamati a pagare i debiti dei privati che hanno fatto le
loro speculazioni, o hanno qualcosa di simile ai “derivati”, o comunque degli errori
finanziari. Alla fine, per via dell’indispensabile nazionalizzazione - come è successo
un po’ anche a Cipro - quando una banca privata di fondamentale importanza per il
Paese va in fallimento, è chiaro che deve intervenire lo Stato, e lo Stato vuol dire
i contribuenti. I cittadini che contribuiscono con limitazioni al welfare, con restrizioni
alle prospettive di evoluzione dei salari, non sono felici e la fanno pagare ai partiti
che hanno determinato questa nazionalizzazione e il processo di spending review.
È evidente che non reagiscono bene. Non differenzierei più di tanto il Nord Europa
dal Sud Europa. Credo ci sia un grosso problema nella necessità di caricare sulle
spalle dello Stato - quindi dei contribuenti - alcuni aspetti del sistema finanziario
che ha fallito senza capire quello che stava arrivando in termini di crisi generale,
quindi con speculazioni.