Bangladesh: 4 persone vive estratte dalle macerie. Il bilancio è di 379 morti
Bangladesh. Si continua a scavare tra le macerie del palazzo di 8 piani, che ospitava
laboratori tessili, crollato a Dacca martedì scorso. Ieri 4 persone sono state estratte
vive. I morti accertati sono 379 e vi sono oltre 1.200 feriti. Per un incendio scoppiato
fra le macerie è poi morta una donna, probabilmente l’ultima vittima, dice il comandante
dei vigili del fuoco. Arrestato il proprietario dell'edificio Mohammed Sohel Rana,
che era fuggito dopo il crollo.
Questa tragedia riporta in primo piano la
triste condizione di milioni di persone che lavorano in regime di sfruttamento e senza
garanzie di sicurezza. Molto spesso, sono vittime delle multinazionali che investono
nei Paesi in via di sviluppo per abbassare i costi di produzione, a fronte di un aumento
esponenziale dei ricavi. Salvatore Sabatino ne ha parlato con l’economista
Tito Boeri:
R. – Io credo
che una tragedia come quella di Dacca sia soprattutto legata all’incapacità dei governi
nazionali di rispettare le regole di base, di far applicare gli standard minimi fissati
dall’Organizzazione internazionale del lavoro. Il problema è che in Bangladesh noi
abbiamo il parlamento nazionale e lo stesso governo che detengono quote importanti
di queste aziende e quindi hanno tutti gli interessi ad aumentare i profitti di tali
aziende e a chiudere un occhio sui controlli, che invece dovrebbero essere attuati.
D. – Ovviamente, questo non è un problema che riguarda solo il Bangladesh.
Secondo l’Onu, sarebbero circa 20 milioni le vittime del lavoro coatto e si concentrano
soprattutto in Asia. Questo fenomeno come può essere definito?
R. – E’ un problema,
in effetti, molto serio, molto importante, soprattutto nel campo del tessile, perché
ci sono condizioni di lavoro davvero disumane. Sono purtroppo eventi che richiedono
davvero, credo, un’attenzione molto più forte da parte delle organizzazioni multilaterali,
nel far sì che gli standard di lavoro vengano rispettati nei diversi Paesi. Soprattutto,
bisogna impedire che ci sia questo legame così stretto tra le elite nazionali
e queste industrie.
D. – Quanto tutta questa delocalizzazione ha influito sulla
crisi economica, che "morde" invece di più i Paesi sviluppati?
R. – Certamente,
la delocalizzazione ha creato un problema per i lavoratori poco qualificati nei Paesi
più avanzati, perché le lavorazioni a minore contenuto di capitale umano si sono trasferite
nei Paesi in via di sviluppo, dove ci sono costi del lavoro più bassi e, come purtroppo
vediamo, anche condizioni di lavoro disumane. Quelli che prima avevano un lavoro nei
Paesi avanzati, in queste aziende, nel tessile, hanno sofferto davvero molto duramente.
La risposta in questo caso non può che essere quella sul puntare su investimenti in
capitale umano e cercare di far sì che queste persone abbiano maggiore possibilità
di riconvertirsi, di apprendere mansioni che siano a maggiore contenuto di capitale
umano. Perché è questo il vantaggio che avranno in futuro, in ogni caso, i Paesi avanzati.
D.
– Guardando però al mercato del lavoro, in senso globale, c’è piuttosto una corsa
al ribasso. Non sono i lavoratori dei Paesi in via di sviluppo che si adeguano a quelle
che sono le garanzie che vengono date nei Paesi già sviluppati, ma è il contrario... R.
– In realtà, la situazione è più complessa, perché ci sono, per esempio, anche proteste
dei lavoratori nei Paesi emergenti, quelli che si stanno arricchendo, e ci sono anche
delle forme di organizzazione dei lavoratori. Anche in Cina ci sono stati scioperi
molto importanti e i lavoratori sono riusciti a portare a casa condizioni lavorative
migliori e incrementi salariali significativi. Non si va, quindi, solo in una direzione.
Certamente, c’è il problema che la penetrazione nei mercati avanzati di importazione
dai Paesi in via di sviluppo ha aumentato le pressioni competitive. Soprattutto in
Paesi come l’Italia, dove non ci sono minimi che vengano fissati dai sindacati, significa
avere persone, soprattutto lavoratori immigrati, lavoratori molto vulnerabili, giovani,
che finiscono per essere in condizioni lavorative molto, molto pesanti.