La vera democrazia vuole un governo dei cittadini. Mons. Toso sul libro del card.
Bergoglio
Non c’è democrazia senza giustizia, non c’è cittadinanza senza solidarietà. In occasione
del bicentenario della nazione argentina, nel 2010, il cardinale Bergoglio, ora Papa
Francesco, ha tenuto un importante discorso che riassume il suo pensiero sociale.
Un testo che è diventato il libro “Noi cittadini, noi come popolo” edito da Lev e
Jaca Book. Alessandro Guarasci ha sentito mons. Mario Toso, segretario
del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, che ha curato la prefazione del libro:
R. - L’obiettivo
del saggio del Cardinale Bergoglio, ora Papa Francesco, è di favorire la rinascita
della politica e della vita democratica in Argentina, coinvolgendo tutte le classi
sociali, ma in particolare i gruppi dirigenti, ai quali si rivolge specialmente nella
Conclusione. Occorre puntare verso una democrazia sostanziale che dev’essere, oltre
che rappresentativa, partecipativa e sempre più allargata sul piano sociale. La vera
democrazia presuppone libertà, uguaglianza, giustizia sociale, sviluppo integrale
per tutti. L’ideale della democrazia è rappresentato da un governo dai cittadini,
dei cittadini, per i cittadini. Ciò implica che tutti i cittadini siano posti in grado
di partecipare alla democrazia avendo la possibilità di votare con cognizione di causa
e con le loro attività quotidiane. I cittadini che sono lasciati nella povertà sono
praticamente emarginati dalla democrazia che prevede non solo la scelta dei propri
rappresentanti ma anche la possibilità di dare il proprio contributo alla realizzazione
del bene comune attraverso molteplici strade, associative, economiche, culturali.
Una vera democrazia deve, allora, creare le condizioni sociali atte a promuovere e
tutelare i diritti di tutti i cittadini, specie dei più poveri, per consentire a loro
di essere costruttori del proprio destino e protagonisti della democrazia.
D.
- Anche l’Italia ha bisogno di una stagione di riconciliazione come l’Argentina di
inizio millennio?
R. - Quanto è avvenuto in occasione dell’elezione del nuovo
Capo di Stato, ed anche prima, ha dimostrato che in Italia, sia a livello politico
sia sul piano sociale e culturale, vi sono profonde lacerazioni e contrapposizioni,
dovute a differenze legittime, ovviamente, ma soprattutto ad assolutizzazioni di punti
di vista particolari, considerati preminenti rispetto al bene comune. Il concentrarsi
sugli aspetti settoriali, sulle diversità, il coltivare il primato dell’«io penso,
io ritengo, io credo» al di sopra della stessa realtà, dei parametri morali, dei riferimenti
costituzionali e normativi, dell’essere sociali e solidali, ha condotto a non vedere
ciò che unisce, alla demonizzazione dell’avversario, al puntare il dito sugli altri
e a non riconoscere i propri errori, a dividere il paese in buoni e cattivi, giusti
e corrotti, rendendo difficile il dialogo. Rispetto a tutto ciò si può sicuramente
parlare della necessità di una “riconciliazione”. Ma questa non può avvenire avallando
la serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità rispetto al diffondersi
della corruzione, alla riforma delle istituzioni e al rinnovamento della politica
e dei partiti a cui ha fatto riferimento il presidente Napolitano nel suo discorso
di insediamento. Se una “riconciliazione” ci dev’essere, questa deve avvenire convergendo
sull’unione morale e spirituale quale è vissuta concretamente, con tanti gesti quotidiani,
dal popolo italiano. Occorre riappropriarsi della democrazia come orizzonte e stile
di vita, quale spazio entro cui dirimere le differenze e trovare il consenso attorno
ad un “progetto paese” condiviso. I governanti non devono essere separati dalla gente,
devono mettersi in maniera decisa al servizio del bene comune. La politica non deve
rimanere uno strumento di lotta per un potere asservito a interessi individuali e
settoriali senza darsi preoccupazione della gestione dei processi.
D. - Il
cardinale Bergoglio mette in guardia dai populismi. Vede pericoli in Europa, e in
particolare in Italia?
R. - I populismi sono censiti e studiati da tempo nelle
università e sono al centro di molteplici pubblicazioni. Non sono un’astrazione. Inficiano
la politica, indeboliscono la democrazia. Dai populismi si esce coltivando una democrazia
di rappresentanza, partecipativa, non partecipatoria, investendo nell’educazione al
sociale, formando le classi dirigenti secondo la visione di una società politica che
non si riduce solo ad un insieme di affari economici, ma che ha al centro le persone
e i gruppi sociali concreti, considerati nell’integralità delle loro dimensioni umane.