Un miliardo e 200 milioni le persone in povertà estrema: le ricette di Fmi e Banca
mondiale
Il 21% della popolazione mondiale vive ancora con pochi centesimi in più di un dollaro
al giorno: è quanto ha ricordato il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco,
al Development Committee che si è riunito a Washington con i rappresentanti del Fondo
Monetario Internazionale (Fmi) e della Banca Mondiale. Da parte sua, Christine Lagarde,
presidente del Fmi, ha denunciato una crescita diseguale e una biforcazione sempre
più evidente fra gli Stati Uniti e l’area dell’euro. Da Washington, il servizio di
Francesca Baronio:
Il 2030: ecco
la data che la Banca Mondiale si è imposta per raggiungere l’ambizioso obiettivo di
mettere fine alla povertà. Jim Yong Kim, il presidente della Banca, ha ricordato che
1.2 miliardi di persone vivono in condizioni di estrema indigenza. Nonostante la
crescita globale e i progressi del continente Africano, è sempre nella regione Sub-Sahariana
che si concentra un terzo della estrema povertà del mondo. “Per vincere questa battaglia
bisognerà promuovere una prosperità condivisa che richiede non solo l’inclusione sociale
ma anche la salvaguardia dell’ambiente, nonché un attento controllo del debito, per
alleggerire il futuro delle prossime generazioni”. La presidente del Fondo Christine
Lagarde, ha ancora una volta posto l’accento su crescita e lavoro, due temi riconosciuti
come centrali da tutti gli Stati membri. Non esiste una ricetta unica, per superare
la crisi finanziaria. Bisognerà insistere con le riforme strutturali, il riordino
delle finanze pubbliche, ma ammorbidendone l’austerità. Via libera anche alle politiche
di svalutazione monetaria, a patto che siano limitate nel tempo. Sempre forte l’attenzione
sulla crisi dell’Europa e la richiesta da parte del Fondo perché la Bce allenti i
tassi.
Per una riflessione sulla visione programmatica che emerge da questo
incontro e sui margini possibili di azione, Fausta Speranza ha intervistato
Paolo Guerrieri, docente di economia internazionale all'Università La Sapienza:
R. - Io lo definirei
ancora un incontro di routine, nel senso che è stato un incontro interlocutorio: non
sono emerse tendenze o decisioni che possano farci pensare che ci sia stata una svolta.
Non mi sembra che sia emersa una nuova capacità di guida, tanto più poi il G20 - questo
non lo dimentichiamo - doveva essere questo famoso direttorio dell’economia mondiale,
il nuovo direttorio dell’economia mondiale… Ma per ora siamo ancora in una fase istruttoria
delle cose da fare.
D. - La Banca mondiale parla di riduzione della povertà
entro il 2030, ma che strumenti hanno o possono avere il Fondo monetario e la Banca
mondiale?
R. - La direttrice del Fondo monetario internazionale, Christine
Lagarde, ha parlato di tre sfere nell’economia mondiale: quella dei Paesi emergenti,
che vanno bene; quella dei Paesi come gli Stati Uniti, che in realtà sono in ripresa;
e poi dell’Europa e in parte del Giappone, che ristagnano. In realtà c’è una quarta
parte dell’economia mondiale, che è l’enorme numero ancora di Paesi sottosviluppati
e di Paesi poveri: è a questi Paesi che poi la Banca mondiale e il Fondo monetario
- nei documenti a cui lei faceva riferimento - guardano, individuando degli obiettivi,
che io ritengo importanti perché a questo punto si pongono degli obiettivi importanti,
soprattutto nella diminuzione della estrema povertà: parliamo di miliardi di persone!
Questi obiettivi sono importanti, ma ritengo anche che l’individuazione di politiche
e di misure da parte del Fondo e soprattutto da parte della Banca mondiale sia ancora
carente. C’è ancora una estrema vaghezza sul che fare. Valuto positivamente un dato
di fatto: si è capito che l’approccio del passato, in base al quale si pensava che
la crescita avesse poi effetti benefici per tutti, non si è dimostrato tale. Abbiamo
visto che non è stato così ed è stato, in qualche modo, visto sempre meno come un
approccio che può essere perseguito: bisogna che i governi assumano delle politiche
e delle iniziative molto più attive e offensive. Non è più pensabile che promuovere
la crescita, che è già di per sé difficile a livello di economia avanzata, possa poi
generare effetti positivi per quanto riguarda i miliardi ancora di poveri che ci sono
nei Paesi sottosviluppati e - come sappiamo - anche dentro l’area avanzata. E’ come
se adesso avessimo una possibilità di transizione da una visione - come dire - un
po’ illuministica della crescita, che crea sviluppo, all’idea che bisogna perseguire
lo sviluppo con delle politiche mirate. Però queste politiche mirate devono ancora
essere formulate e soprattutto andranno poi realizzate.
D. - E’ stato detto
che le parole chiave sono crescita e lavoro: dunque anche distribuzione delle risorse
in diverse aree del mono, ma anche all’interno degli stessi Paesi?
R. - Guardi
è fondamentale questo tema della distribuzione e delle disuguaglianze insopportabili
che oggi esistono. Fino adesso abbiamo ritenuto che la disuguaglianza era, in qualche
modo, curabile semplicemente perseguendo la crescita: invece abbiamo scoperto che
la crescita può essere estremamente elitaria, riguardare cioè pochi soggetti all’interno
di un Paese e pochi Paesi. Naturalmente tutto questo significa anche un nuovo approccio
alla cooperazione internazionale. Dobbiamo metterci alle spalle anni e anni in cui
si è esaltato tutt’altro che il concetto di cooperazione: si è esaltato l’individualismo,
si è esaltata soprattutto la capacità salvifica dei mercati, ma i mercati sono strumenti
importanti, ma hanno dei limiti enormi. Ecco, bisogna che in qualche modo questa consapevolezza
adesso generi una nuova non solo riflessione, ma anche nuove proposte.