10 anni fa la morte di Piero Corti, medico che donò la vita per l'Africa
Dieci anni fa, nel giorno di Pasqua, moriva a Milano Piero Corti, medico che dedicò
la sua vita a far crescere il Lacor Hospital, il più grande ospedale privato
e no-profit dell’Uganda. Anni prima era scomparsa sua moglie Lucille, anche lei medico
che morì di Aids dopo essersi infettata operando i feriti di guerra. Ieri mattina,
il card. Dionigi Tettamanzi, arcivescovo emerito di Milano, ha celebrato una Messa
per ricordare la coppia. Sul sito Internet www.fondazione corti.it è possibile conoscere
meglio la storia della famiglia Corti e le attività dell’ospedale alle quali si può
contribuire anche con una piccola donazione. Benedetta Capelli ha intervistato
la figlia di Piero e Lucille, Dominique Corti:
R. - Ogni anno
curiamo 270 mila malati in un’area dove, tutt’ora, il 60 per cento della popolazione
vive in povertà assoluta e dove solo il 10 per cento ha un impiego vero. Però siamo
anche un enorme centro di formazione; abbiamo 300 studenti residenti e circa altri
cento non residenti. Quindi diamo anche lavoro a 600 dipendenti ugandesi. È una grossa
macchina che fa tanto bene!
D. - Entrambi i tuoi genitori sono sepolti in Uganda.
Lì, quanto è vivo il loro ricordo?
R. - In realtà loro non hanno scelto di
essere sepolti in terra africana, ma hanno voluto essere sepolti nel loro ospedale!
Il papà diceva: “Io mi faccio seppellire qui, in mezzo, perché così tengo sotto controllo
le cose. Se qualcuno si comporta male, esco fuori e gli tiro la gamba!”. Per cui,
c’è un ricordo vivissimo dei miei genitori. Tutta la gente dice che è grazie ai miei
genitori che hanno assorbito una cultura del lavoro molto diversa da quello che è
altrove.
D. - Sulla tua vita che peso ha avuto la scelta dei tuoi genitori
di dedicarsi agli altri e quindi anche di vivere in Uganda?
R. - Sono nata
in questo ospedale. Qui sono cresciuta! La mia mamma mi portava in ospedale, per cui
sono praticamente cresciuta seduta sui letti dei pazienti. Durante il giro di visite
facevo i miei disegnini, e in sala operatoria mi mettevo seduta. Poi poco più grande,
iniziai a fare i primi piccoli mestieri. Per me era l’assoluta normalità. Ho studiato
medicina perché volevo fare il medico là, ma quando ho conseguito la laurea, era evidente
che l’ospedale non aveva tanto bisogno di me in quanto medico, perché ormai i medici
ugandesi c’erano - ed erano bravi - ma aveva estremamente bisogno di un aiuto da un
punto di vista finanziario… I miei genitori avevano appena creato questa fondazione
che è diventato lo strumento “ideale” per farmi lavorare e cercare di fare, non tanto
quello che avevo voglia di fare, ma quello di cui c’era bisogno.
D. - Avere
alle spalle dei genitori che sono una testimonianza vivente di dedizione, di sostegno,
di amore per gli altri, a volte può rappresentare un peso? Oppure è soltanto una ricchezza?
R.
- Ho contatti continui con il personale che ha lavorato con loro, con persone che
hanno continuato a fare il proprio lavoro in tempi talmente difficili, che non ti
soffermi a pensare su quello che hanno vissuto i miei genitori. Ad esempio, la capo
infermiera ha vissuto gli anni di guerra quando, durante la notte, i ribelli armati
di fucile venivano all’interno dell’ospedale due, tre, quattro volte a settimana e
tenevano sotto la minaccia delle armi tutti cercando soldi. Se non ne avevano abbastanza,
si portavano via un’infermiera perché sapevano che l’ospedale avrebbe cercato di pagare
un riscatto. Allora, questi infermieri in abiti civili, per anni entravano in ospedale
di sera, si nascondevano tra i parenti dei pazienti in mezzo ai letti, sperando di
farla franca. I miei genitori avevano la pelle bianca che, nel nostro contesto di
conflitto, è sempre stato un fattore di protezione. Riporto l’esempio di Angioletta,
ma anche quello di Matthew: un medico ugandese, che era direttore dell’ospedale. Nel
2000 si è accorto che c’erano molti morti in più e che erano probabilmente dovuti
ad una febbre emorragica virale. Così ha allestito un reparto per i malati di ebola
perché lui diceva che, per prima cosa, era il nostro dovere come medici sanitari;
secondo perché magari qualcosa si riusciva a capire come riuscire ad aiutare questi
pazienti ed infine “perché – diceva – se io fossi solo, non vorrei essere abbandonato
senza qualcuno che mi tiene la mano”. Insomma, ne abbiamo persi 13, incluso lui, che
fino all’ultimo ha continuato a dire: “È il nostro dovere! Lo dobbiamo fare per gli
altri! Per la nostra gente!”. I miei hanno fatto partire la palla, ma poi la palla
ha continuato a rotolare, e tantissima gente è entrata lungo il percorso ed ha contribuito.
Persone che vale la pena aiutare.
D. - C’è anche un riferimento di fede nella
storia dei tuoi genitori?
R. - Sicuramente, per il mio papà la fede è stata
il motore principale. Il nostro è un ospedale della diocesi. È un ospedale missionario,
è stato costruito dai missionari comboniani per la diocesi locale. All’epoca il vescovo
era comboniano. Quello attuale è veramente eccezionale! È il presidente del consiglio
di amministrazione dell’ospedale, ma è anche il presidente della Conferenza episcopale
ugandese: l’arcivescovo John Baptist Odama, il quale si è esposto moltissimo durante
gli anni di guerra, era in prima linea per cercare di ottenere un accordo di pace
con i ribelli. È molto attento al fatto che l’ospedale continui la sua missione che
è quella di curare tutti, senza discriminazioni di sesso, di razza, di religione o
altro. Tutti! Ma la sua missione è soprattutto focalizzata sui più poveri, gli ultimi
della fila.