Ue: lavoro a picco. Protestano i sindacati: attacco ai diritti sociali
Allarme rosso per l’occupazione in Europa. L’Organizzazione internazionale del lavoro
(Oil) denuncia il pauroso aumento dei senza lavoro nei Paesi dell’Ue: 26 milioni e
300 mila nel febbraio di quest’anno, quando il tasso di disoccupazione - secondo dati
Ocse - ha raggiunto il 12%, crescendo ulteriormente rispetto all’11,4%, registrato
in media lo scorso anno dalla Banca Centrale Europea. Roberta Gisotti ha intervistato
Luca Visentini, segretario confederale del Ces, la Confederazione dei sindacati
europei, che ha sede a Bruxelles, che riunisce 85 organizzazioni del lavoro, in 36
Paesi europei:
D. – Dott. Visentini,
è giusto dare la colpa solo alla crisi economico-finanziaria, piuttosto che non alle
politiche europee e governative per contrastare tale crisi?
R. – Diciamo che
le politiche europee sono andate nella direzione sbagliata. Questa austerità e queste
misure non sono riuscite ad incidere sugli effetti che la crisi ha avuto sul mercato
del lavoro europeo, come invece le politiche – per esempio – degli Stati Uniti, della
Federal Reserve, la Banca centrale degli Usa, sono riuscite a fare, perché sono andate
in una direzione completamente diversa: non quella dell’austerità, ma quella degli
investimenti e del rilancio della domanda interna.
D. – A dire il vero, se
la colpa originaria della crisi globale sono state le banche e le scellerate pratiche
finanziarie, le conseguenze – bisogna dire – non sono però ricadute sui soggetti responsabili,
anzi sono ricadute soprattutto sui lavoratori …
R. – La maggior parte degli
Stati si sono indebitati per far fronte alla crisi delle banche, per cercare di salvare
gli istituti di credito e questo ha generato anche tutta questa discussione sui debiti
pubblici in Europa: crescenti, ingovernabili per certi aspetti … e quindi poi le politiche
di austerità sono state messe in campo per risolvere il problema dei debiti pubblici,
invece di concentrarsi su quello che avrebbe dovuto essere la priorità, e cioè il
fatto che la crisi derivava dalla finanza ‘allegra’ e dalla finanziarizzazione dell’economia,
da queste bolle speculative che avevano caratterizzato tutta la crescita economica
degli ultimi 10-12 anni. Le conseguenze della crisi finanziaria si sono trasformate
in crisi economica e questa crisi economica ha colpito i lavoratori, i cittadini generando
povertà, disoccupazione, tagli ai salari, tagli ai posti di lavoro e così via, perfino
nella Pubblica amministrazione. Quindi, quello che noi diciamo è che queste politiche
devono essere profondamente cambiate.
D. – Perché le banche, le cui casse sono
state rimpinguate dai contributi della Banca Centrale Europea oltre che da quelli
governativi, continuano a negare – specie in Italia – i necessari crediti all’impresa
per la ripresa dell’economia e, se non alla creazione di nuovi posti di lavoro, almeno
al mantenimento di quelli che c’erano?
R. – Le banche continuano a negare il
credito perché non hanno i soldi. Il problema è che siccome hanno speculato e si sono
"riempite le pance" di titoli tossici e di derivati e di prodotti a rischio della
finanza internazionale, l’intervento di salvataggio nei confronti di queste banche
è servito semplicemente a ricapitalizzarle e a riportarle in una situazione di precario
equilibrio. Quindi, la verità è che purtroppo nonostante questi salvataggi, nonostante
che tutte queste risorse siano state spese per le banche e sottratte agli investimenti,
le banche non sono in grado, evidentemente, di far fronte alla crisi del credito,
che investe le imprese e anche le famiglie. Il punto è che bisognerebbe cercare di
spostare il tiro: bisogna da un lato abbandonare le politiche di austerità e dall’altro
canto cercare di mutualizzare il debito pubblico a livello europeo, introdurre gli
Eurobond – gli europroject bond – perché questi sono gli unici strumenti che possono
effettivamente generare risorse nuove e quindi realizzare investimenti all’interno
del nostro continente.
D. – L’Organizzazione internazionale del lavoro indica,
tra le soluzioni, anche di dire basta al ribasso sui salari …
R. – Questo è
uno dei punti dolenti, perché si è pensato che l’unica leva, l’unico spazio di manovra
fosse quello di ridurre i salari e il potere d’acquisto dei lavoratori e quindi anche
poi tutti gli strumenti di sostegno sociale … E’ stata messa in campo, cioè, una campagna
pesantissima di distruzione e destrutturazione della contrattazione collettiva nei
posti di lavoro, del ruolo delle parti sociali in questa contrattazione collettiva,
di attacco ai salari minimi laddove questi esistevano per legge … E quindi, c’è stato
proprio un abbassamento complessivo dei salari, delle retribuzioni dei lavoratori,
delle pensioni e, in generale, del potere d’acquisto delle fasce più deboli della
popolazione. Questo è stato, secondo noi, un errore gravissimo perché ha comportato
ulteriore recessione. Noi, ovviamente, non stiamo zitti, non stiamo silenti, cerchiamo
di reagire a questa "guerra" che si è sviluppata e scatenata nei confronti dei diritti
sociali e dei diritti sindacali. Adesso abbiamo lanciato anche una vera e propria
piattaforma a livello europeo che si chiama “Patto sociale per l’Europa”, nella quale
tentiamo di riequilibrare queste politiche, cerchiamo di lanciare un’idea diversa
di governance economica… Paradossalmente, perfino il Parlamento europeo che dovrebbe
essere l’organismo di massima rappresentanza democratica dei cittadini europei a livello
comunitario, continuamente viene messo nell’angolo, da parte in particolare dalla
Commissione europea, ma soprattutto dal Consiglio europeo, cioè dalla sommatoria dei
governi. Non è un caso che il Parlamento europeo, poche settimane fa, a Strasburgo,
abbia deciso di rigettare il bilancio europeo 2014-2020: i governi hanno deciso di
tagliare il bilancio europeo del 20%-30% e quindi di tagliare gli investimenti per
far ripartire l’economia. Una decisione masochistica, totalmente irrazionale, schizofrenica
che il Parlamento europeo, insieme alle parti sociali, ha fortemente criticato. Questo,
secondo noi, è un primo segnale importante del fatto che alcune istituzioni europee,
per fortuna, stanno reagendo.