Rwanda: 19 anni fa il genocidio. Testimonianze di un Paese che fa i conti con la memoria
Ricorreva ieri il 19.mo anniversario l’inizio di uno dei più drammatici genocidi della
storia recente: quello del 1994 in Rwanda contro i Tutsi, perpetrato dagli Hutu. Un
milione di morti circa in soli tre mesi. Per punire i principali responsabili, politici
e militari, nel novembre dello stesso anno fu creato, ad Arusha, in Tanzania, il Tribunale
penale internazionale per il Rwanda. Il servizio è di Francesca Sabatinelli:
Lo si ricorda
come uno degli stermini più sanguinosi della storia recente: il genocidio in Rwanda,
un milione di morti circa tra il 6 aprile e il 19 luglio del 1994. Le vittime furono
soprattutto membri dell’etnia Tutsi, uccise dagli estremisti Interahamwe, della maggioranza
Hutu. Anche tra questi ultimi però si contarono morti, puniti perché più moderati
o perché imparentati con i Tutsi. Oggi, oltre allo sterminio, si ricorda e si condanna
l’indifferenza della comunità internazionale e, prime fra tutti, delle Nazioni Unite
che assistettero inermi alla barbara violenza che fu classificata come “scontro tribale”,
ma che in realtà fu il prodotto dell’eredità post-coloniale. La persecuzione dei Tutsi
in Rwanda si registrava sin dal 1959, ma prese la forma del genocidio nel 1994, appunto,
dopo la morte del presidente hutu Habyarimana, al potere con un governo dittatoriale.
Il 6 aprile, l’aereo sul quale viaggiava con il presidente del Burundi fu centrato
da un missile. Ignota ancora oggi la mano dell’assassino: negli anni fu incriminata
la moglie, ma allora questo omicidio servì per scatenare la furia contro i Tutsi.
Il 7 aprile, a Kigali, la capitale, e nelle zone controllate dai governativi, iniziarono
i massacri perpetrati per lo più a colpi di machete. George Gatera, di Butare,
è un sopravvissuto, da dieci anni vive in Italia.
R. – Io ero in Rwanda nel
mese di aprile e ho vissuto tutto quello che è successo. Sono cresciuto in quella
atmosfera per cui le persone erano classificate e divise secondo le etnie. Chi stava
al potere era etichettato dall’altra parte come nemico del Paese. La parte dei Tutsi
era considerata di seconda categoria… In Rwanda, c’erano gli Hutu che erano la maggioranza,
l'80-85%, e i Tutsi che erano la minoranza, il 14%. La vita sociale era basata su
queste cifre. Si viveva in questo modo e questo valeva per i posti a scuola, nel lavoro,
nella vita quotidiana, finché nel ’94 il governo ha deciso di eliminare socialmente
la parte dei Tutsi nel Paese.
D. – Che cosa le successe in quel periodo, come
viveva?
R. – C’era un odio tale contro i Tutsi che la mattina stessa del 7
aprile non si poteva circolare, non si poteva uscire di casa, non si poteva fare niente..
Ad esempio, dove io abitavo, c’erano tanti militari che entravano nelle case, prendevano
le persone… Con l’andare del tempo è scoppiata una caccia alle persone, dal più anziano
al più piccolo venivano uccisi, bruciavano tutto… La situazione era terribile. In
quel periodo, quasi tutte le persone che conoscevo e con cui ho vissuto sono state
uccise.
D. – Si riesce a perdonare a superare tutto questo?
R. – Chi
ha perso i propri cari vive questo stato di dolore, di ricordi, ma questo non impedisce
che la vita continui. E’ difficile provare odio per qualcuno che non conosci esattamente…
Non è che io conosca personalmente chi ha ucciso i miei.
D. – Lei vorrebbe
rientrare ora nel suo Paese?
R. – Ogni tanto ci vado. Trovo un Paese che sta
ricostruendo, che ha voglia di riprendersi, di vivere, di superare tutto anche tutto
quello che ha subito.
Oggi, il Rwanda è un Paese che sta facendo i conti con
la sua memoria. I rwandesi non si sono tirati indietro rispetto alle loro colpe, e
questa assunzione di responsabilità ha fatto sì che si arrivasse ad una sorta di riconciliazione
nazionale. "Bene-Rwanda" è una Associazione no profit con sede a Roma, fondata e diretta
da rwandesi che risiedono e lavorano da anni in Italia, come la presidente Francoise
Kankindi:
R. – Il Rwanda ha dovuto fare i conti con se stesso per capire
come rendere di nuovo il tessuto sociale un minimo vivibile. I massimi esperti avevano
detto che ci sarebbero voluti 100 anni per giudicare tutti i colpevoli del genocidio
e visto che bisognava continuare a vivere e ricostituire un tessuto sociale il Rwanda
ha dovuto ricorrere ai tribunali tradizionali che si chiamano gacaca, che vuol
dire "prato": sono tribunali che avvengono sul prato, il prato del villaggio, dove
tutti partecipano spontaneamente e tutti confessano davanti ai vicini, quindi è difficile
anche mentire. Dopodiché, viene anche istituita una pena sociale sostenibile per poi
reintegrare i colpevoli nella vita di tutti i giorni. Il Rwanda ha dovuto ricorrere
alla sua propria tradizione di una giustizia ricostituente, cioè che ricostruisce
successivamente per poter riprendersi. A oggi, il Rwanda ha potuto ricostituirsi grazie
a questi tribunali sociali locali che hanno documentato, collina per collina, comune
per comune, villaggio per villaggio, quello che è successo. Oggi, abbiamo la memoria
di tutto il genocidio del Rwanda documentato da questi tribunali "Gacaca". La macchina
era stata organizzata in modo che tutti dovessero partecipare perché, se non partecipavi
ti uccidevano. Si è partiti da questo per dare anche un perdono sociale a chi aveva
dovuto comunque partecipare a quell’uccisione collettiva, malgrado se stesso.
D.
– Voi temete qualcosa di simile ancora oggi, nel Rwanda di oggi?
R. – Nel Rwanda
di oggi non lo temiamo più, perché dal ’94 il Rwanda ha acquisito una maturità intellettuale,
una presa di coscienza della gravità di ciò che era successo. Il Rwanda si è dotato
di leggi a livello costituzionale che puniscono severamente chi tenta di nuovo di
dividere e di creare di nuovo le premesse per un genocidio. I Gacaca allestiti anche
collettivamente nei villaggi hanno permesso a tutti di capire cosa vuol dire un genocidio.
Nessuno aveva detto a molti degli hutu che avevano partecipato all’uccisione di massa
che stavano commettendo un genocidio. La nostra radiodiceva: andate a lavorare
- questa era la parola che si usava - voi hutu siete bravi lavoratori, siete bravi
agricoltori, sapete usare bene il machete, andate a sradicare l’erba cattiva, andate
a sradicare gli "scarafaggi" - che eravamo noi tutsi - e questa volta non fate l’errore
di lasciare i bambini e le donne. Questo insegnava la radio dei nostri governanti.
D.
– Cosa ne è oggi dei sopravvissuti e di quei ragazzi che allora hanno visto uccidere
i loro familiari?
R. – Hanno bisogno di aiuto, perché molti di loro hanno perso
tutta la famiglia. Però, oggi c’è una Commissione nazionale di lotta contro il genocidio
e subito dopo il genocidio c’è stato anche un fondo per permettere a questi ragazzi
di studiare. Ma questo non basta. Il Rwanda è povero, non va lasciato a se stesso.
I sopravvissuti sono soli, non hanno avuto una riparazione. Tutti noi rwandesi facciamo
tutto il possibile per stare vicino nel nostro piccolo… Una minima riparazione è contemplabile?
Questa è la domanda che ci facciamo tutti.
D. – Per quello che vi consta, ci
sono segnali in altri Paesi africani che vi fanno pensare che potrebbe esserci qualcosa
di drammatico come ciò che accadde da voi nel ’94?
R. - Sì, non c’è bisogno
di andare lontano. Nel vicino Congo, i genocidari del ’94 si sono rifugiati e hanno
formato anche forze militari che stanno destabilizzando il Paese, violentano le donne…
Il Congo stesso si sta dimostrando incapace di fermarli. Purtroppo, ci si rifiuta
di vedere gli stessi segnali premonitori. Alla vigilia del 20.mo anniversario, l’anno
prossimo, noi vorremmo che il Rwanda avesse insegnato e ci avesse spronato tutti a
rifiutare il fatto che un genocidio possa succedere ancora da qualche parte.
Principale
obiettivo di Bene-Rwanda è quello di conservare la memoria del genocidio, per questo
si propone di fondare il Centro Memoria 1994 che possa raccogliere i documenti più
importanti sulla tragedia dei Tutsi. In occasione di questo 19.mo anniversario, organizza
per il domenica 14 aprile, presso il Teatro Piccolo Eliseo di Roma, una manifestazione
pubblica per raccontare ciò che accadde in Rwanda e per riflettere sulle attuali emergenze
nel continente africano.