2013-04-01 14:10:36

Giornata dell'Autismo: testimonianza di Gianluca Nicoletti, papà di un ragazzo autistico


“Un perenne estraneo, imprigionato tra gente a lui sconosciuta e dalla quale ha pochissime speranze di essere realmente capito”. Così racconta di suo figlio autistico, il giornalista radiofonico Gianluca Nicoletti nel libro dal titolo “Una notte ho sognato che parlavi”. Si scopre l’esperienza di un padre e i lati oscuri di un disturbo neurobiologico che è in aumento e che mina la tenuta familiare. In occasione della Giornata mondiale dedicata all’autismo ascoltiamo la sua testimonianza. ”Sono un papà fortunato ma anche segnato per sempre” dice di sè Nicoletti. Gabriella Ceraso gli ha chiesto il perché…RealAudioMP3

R. – Fortunato nel senso che ho possibilità e capacità di occuparmene; fortunato forse anche perché ho preso coscienza realmente – anche se attraverso una strada molto dolorosa – di cosa significhi essere padre. Normalmente, è sano che un figlio di 15 anni cominci a prendere lentamente autonomia; un ragazzo autistico, quando passa l’adolescenza, ti si attacca come mai nella vita: ha soltanto te, in quel momento. Ha una sua irruenza fisica, data dalla malattia, per cui la madre fisicamente ha difficoltà, ammesso che ci sia la madre, perché nella stragrande maggioranza dei casi la famiglia esplode, scoppia, e i primi ad andarsene sono proprio i padri e le madri rimangono sole. Nel mio caso, la madre c’è, quindi siamo fortunati anche in questo. Però, non ha gli strumenti fisici per gestire un figlio così irruento. Detto questo, è un ragazzo tenerissimo, che mi sta vicino, che non mi lascia mai solo …

D. – Per te, quali sono i lati oscuri dell’autismo?

R. – E’ una vita difficile, molto difficile; mi auguro che sia meno difficile andando avanti. Questo è un Paese molto arretrato nei confronti di questa patologia. In due punti siamo molto indietro: sulle diagnosi precoci di autismo e soprattutto non c’è quasi nulla per gli autistici quando passano l’adolescenza. Quello che dovrebbe accadere nel nostro Paese è una sensibilizzazione istituzionale: almeno, si cerchi di investire in maniera più razionale, si cerchi di formare, di specializzare le persone che si occupano di questi ragazzi disabili; si addestrino anche le strutture scolastiche … Si incominci a pensare ci possano essere degli spazi in ogni municipio, consoni alla loro esistenza: si darà una speranza di vita ai loro genitori che non smetteranno di vivere quando nasce loro un figlio autistico, e avranno anche i figli una vita dignitosa, molto più felice di quella che possono avere come dei vuoti a perdere, abbandonati qua e là in luoghi dove non c’è l’idea specializzata della loro patologia.

D. – Tu parli di questi ragazzi come di “rivelatori di umanità grottesca” e anche “spiriti liberi”, o ancora “avanguardia della società futura”: perché?

R. – Io che sono stato tra le persone che per prime hanno intuito le potenzialità della rete, che ho analizzato per anni la televisione, faccio i conti con un ragazzo che seleziona la sua comunicazione. Non è che non comunica: comunica nelle maniere e nei modi che per lui sono più efficienti per gestire la sua ansia. Insomma, è un modello specializzato di comunicazione. Mi sento di poter dire che verrà un momento in cui questa nostra iper-facoltà di esser sempre disponibili, adattabili al nostro prossimo in nome di una riconosciuta civilizzazione, possa arrivare ad una riflessione sul fatto che forse si può comunicare anche in maniera più intensa, più profonda, non necessariamente così compulsiva. E l’osservazione dell’autistico ti insegna anche a tenere come un grosso tesoro la propria individualità. Oggi siamo molto abituati alla contaminazione, alla condivisione, che sono bellissimi principi, ma a forza di condividere perdo il senso di quello che è il mio specifico, la mia esperienza. L’autistico è molto geloso del suo modo d’essere.

D. – Che cosa vorresti per saperlo felice?

R. – Vorrei riuscire, finché sono in tempo, a creargli degli strumenti di autonomia, delle maniere di socializzare, di sentirsi con dignità facente parte di una società. Quindi vorrei creare delle aree, dei luoghi felici, dei centri aperti in cui questi ragazzi siano seguiti dalle persone che per mestiere e per vocazione sappiano bene qual è la loro patologia, e possano incominciare ad avere occasioni di vita adeguate al loro modo d’essere, ecco. Incominciare a creare delle aree in cui questi ragazzi si sentano felici perché si sentono realizzati: non è che sono stupidi perché sono autistici; sono semplicemente isolati dal mondo. Ma dentro hanno la nostra sensibilità, la nostra percezione del mondo, anzi: molto più acuta e sottile. Mio figlio sente gli umori di casa prima ancora che noi possiamo anche solo esprimerli …

D. – “Una notte ho sognato che parlavi” è il titolo del tuo libro. Perché lo hai scelto?

R. – Perché è il sogno più ricorrente che fa il genitore di un autistico. Fisicamente, non si potrà mai sentire un ragazzo autistico parlare in maniera fluida. Tu pensa poi al mio paradosso: io mi guadagno da vivere parlando – faccio radio! – e ho un figlio per il quale il parlare è il grande ostacolo … Quindi è logico che ogni tanto io sogni che mi parli, sento la sua voce, sento i suoi discorsi, mi dice tutto quello che per me già mi ha detto e che mi dice ogni giorno, ma lo dice attraverso la voce. E’ il sogno dell’impossibile …







All the contents on this site are copyrighted ©.