Rapporto di Amnesty sulla Turchia: libertà d’opinione incatenata
“E’ giunto il tempo di togliere le catene alla libertà” è il titolo del Rapporto pubblicato
oggi da Amnesty International riferito alla Turchia, dove in questi giorni il parlamento
sta esaminando un pacchetto di riforme legislative. L’organizzazione umanitaria denuncia
“centinaia di procedimenti giudiziari a carico di attivisti, giornalisti e avvocati”.
Roberta Gisotti ha intervistato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty
Italia:
D. – Che cosa
sta accadendo in Turchia? Perché queste violazioni che sarebbero addirittura in aumento?
R.
– Sta accadendo che, nonostante vari tentativi di riforme sul piano giudiziario, non
si riesca ad andare oltre ad emendamenti di facciata. Rimangono inalterati almeno
otto articoli del Codice penale del 2005 e due articoli della Legge antiterrorismo
del ’91, che prevedono una serie di fattispecie di reato indefinite, di contenuto
generico, e sono queste che consentono di avviare inchieste e procedimenti giudiziari
nei confronti di persone, che esercitano unicamente la loro libertà di espressione.
Ovviamente, esprimono critiche nei confronti del governo oppure si battono per i diritti
economici, sociali e culturali della minoranza curda, ma sono attività legittime,
previste dal diritto internazionale, che però per la legislazione turca equivalgono
a reati penali.
D. – Nel Rapporto, si fa riferimento in particolare all’art.
301, che riguarda la denigrazione della nazione turca, e all’art. 318, che riguarda
il servizio militare...
R. – Esatto. La Turchia è l’unico Paese in Europa che
non prevede l’obiezione di coscienza. Questo significa che chi rifiuta di svolgere
il servizio militare, non soltanto compie un reato, perché l’obiezione di coscienza
non è prevista, ma viene incriminato ai sensi dell’art. 318, perché aliena l’opinione
pubblica dal servizio militare, proponendo una modalità alternativa. L’art. 301 è
l’articolo storico con cui la Turchia ha criminalizzato ogni forma di critica legittima
nei confronti delle autorità. Sotto quella definizione di “denigrazione della nazione
turca”, sono finiti sotto processo giornalisti, avvocati, scrittori, persone che avevano
magari chiesto un riesame dal punto di vista storico e critico di quanto commesso
ai danni del popolo armeno, del genocidio armeno o persone che invocavano maggiore
rispetto per i diritti dei curdi – l’uguaglianza, il bilinguismo, il riconoscimento
delle loro specificità culturali – giornalisti che hanno scritto articoli critici
nei confronti delle politiche del governo in materia di diritti umani, personalità
illustri come Orhan Pamuk, come Hrant Dink e tanti altri intellettuali del Paese.
D.
– C’è poi in vigore una Legge antiterrorismo, che limita anche la libertà di espressione...
R.
– Sì, questi due articoli – il 6/2 e il 7/2 - della Legge antiterrorismo del ’91.
Il primo, che criminalizza la stampa o la pubblicazione di dichiarazioni o affermazioni
di organizzazioni terroriste, in realtà è stato utilizzato molto per colpire giornalisti,
direttori e proprietari di testate che parlavano dei diritti dei curdi o che erano
scritti in lingua curda. L’art. 7/2 sulla propaganda terrorista è scritto in maniera
così generica da criminalizzare persino dibattiti pacifici sui diritti dei curdi.
Temi, slogan di manifestazioni in favore dei curdi vengono etichettate come propaganda
terrorista. C’è un caso che voglio raccontare, quello di Sultani Acibuca, una donna
di 62 anni, che fa parte di un gruppo di madri i cui figli sono morti o sono in carcere
per fatti relativi al conflitto tra l’Esercito turco e il Pkk, il gruppo armato curdo:
lei è stata condannata a dieci mesi di carcere per il solo fatto di avere pubblicamente
invocato la pace tra l’Esercito turco e il Pkk, per aver chiesto la fine degli scontri
armati e una riconciliazione che desse un futuro di pace e democrazia al Paese.
D.
– Che possibilità ci sono che questo Rapporto di Amnesty venga raccolto da qualche
istanza politica istituzionale?
R. – L’occasione è importante, perché davanti
al parlamento è in corso, e sotto esame, la quarta riforma giudiziaria. Potrebbero
esserci riforme veramente in profondità, anziché di superficie. E’ importante perché
c’è questa coincidenza temporale con l’opportunità scaturita dal cessate-il-fuoco
annunciato dal carcere da Abdullah Öcalan, leader del Pkk, la settimana scorsa. Quindi,
se ci fossero riforme giudiziarie che dessero un senso ai diritti umani, che togliessero
– come dice Amnesty International – le catene alla libertà di espressione, e se si
avviasse un negoziato sincero, con obiettivo la pace e i diritti umani al centro dell’agenda
di questo negoziato, per la Turchia si tratterebbe veramente di voltare pagina. E’
quello che noi abbiamo chiesto in questo Rapporto.