Crisi in Centrafrica: ribelli alle porte di Bangui
I ribelli centrafricani della coalizione Seleka, che negli ultimi giorni stanno avanzando
verso la capitale della Repubblica centrafricana, hanno annunciato di essere ''alle
porte di Bangui'' e affermano che l'ultimo ostacolo è solo la ''barriera'' dei soldati
sudafricani impegnati nel Paese. Sembra fallito dunque il processo politico lanciato
dagli accordi di Libreville, firmati l'11 gennaio. Fausta Speranza ne ha parlato
con Anna Bono, docente di storia e istituzioni africane all’Università di Torino:
R. – Questi
accordi avrebbero dovuto, nelle intenzioni – così sembrava – sia della Seleca sia
dell’alleanza governativa sia del governo, trovare una soluzione, realizzando un governo
di coalizione e di unità nazionale che consentisse all’insieme dei movimenti che hanno
aderito a questa alleanza governativa, di partecipare alle attività di governo e di
avere dei ministeri. Questa soluzione, che sembrava diventare operativa, invece purtroppo,
come spesso capita, si è rivelata più che altro forse un espediente per prendere tempo,
per ricostruire – da parte dell’alleanza antigovernativa – le proprie forze, per riorganizzarsi
e ricompattarsi e, come vediamo, lanciare nuovi attacchi.
D. – Quale partita
si gioca in Centrafrica e quali sono le parti?
R. – La partita che si gioca
in Centrafrica è una partita che, per capire in che cosa consiste, occorre risalire
indietro nel tempo. Ad oggi, ci sono dei movimenti antigovernativi che rivendicano
un ruolo, una posizione all’interno del governo che contestano vigorosamente – con
le armi, come vediamo – il modo di governare del presidente Bozizé e del suo governo,
e di sicuro non senza ragione. Le cause più remote di questa crisi sono più o meno
le stesse che determinano tante altre crisi nei Paesi africani: la delusione dopo
l’indipendenza che aveva portato l’illusione di sviluppo umano, di crescita economica
e prima ancora di piena realizzazione delle rivendicazioni che sono state, in tutti
i Paesi africani, all’origine delle guerre e dei movimenti di indipendenza, cioè rispetto
dei diritti umani, valorizzazione a beneficio di tutta la popolazione delle risorse
di un Paese. Tutto questo in Centrafrica non è successo, e se qualcuno ha memoria
di questo Paese, ricorda la drammatica e per certi versi grottesca storia di quel
delirante leader che si chiamava Jean Bédel Bokassa, l’uomo che si fece addirittura
incoronare imperatore, approfittando – e questo è il punto di partenza – di risorse
se non immense, certo estremamente cospicue, tanto più per un Paese così piccolo e
poco popolato, cioè i diamanti.
D. – Il Centrafrica rimane tra i Paesi più
poveri al mondo? R. – Nella classifica delle Nazioni Unite, quella nota come
indice di sviluppo umano e che ogni anno classifica i Paesi a partire dalle condizioni
non soltanto economiche ma più generali cercando appunto di individuare lo sviluppo
umano di ogni Paese, il Centrafrica è uno degli ultimi. Sono 180 su 187 i Paesi calcolati.
Forse rendo un’idea ancora più precisa della situazione di questo Paese con la speranza
di vita alla nascita, che è di 49 anni quando in Italia sfiora gli 80, tanto per avere
un termine di confronto. Questo accade in un Paese piccolo, con buone risorse e che
avrebbe potuto essere, invece, uno dei Paesi più stabili e meno problematici di tutto
il Continente.