Obama in Medio Oriente per un maggiore sforzo diplomatico
Il presidente statunitense, Barak Obama, è arrivato in Giordania, dopo tre giorni
trascorsi in Israele. Ad Amman incontrerà il re Abdallah. Stamani, prima di lasciare
Gerusalemme, Obama ha incontrato il premier israeliano, Netanyahu e ha fatto visita
al Museo della Shoah, Yad va-Shem, quindi si è recato a Betlemme, in Cisgiordania,
dove ha visitato la Basilica della Natività. Sicurezza per Israele e uno Stato per
i palestinesi, ma anche monito all’Iran per fermare il programma nucleare. Questi
in sintesi i concetti espressi in questi giorni. Sul significato del viaggio di Obama,
Giancarlo La Vella ha intervistato Giorgio Bernardelli, esperto di Medio
Oriente:
R. – Che cosa
segna, questa visita di Obama? Segna certamente un cambio di strategia. Non è l’Obama
del 2009, delle iniziative politiche attraverso i leader, per fermare la costruzione
degli insediamenti israeliani nei Territori, con una posizione molto forte. Quello
di oggi è un Obama molto più politico, il cui principale obiettivo in questo viaggio
era di riguadagnare la fiducia di Israele. In qualche modo, anche di parlare in maniera
diretta all’opinione pubblica israeliana, scavalcando un governo, come quello di Netanyahu,
che al di là dei sorrisi e delle strette di mano, lui avverte come ostile.
D.
– Concetti come “uno Stato per i palestinesi”, “sicurezza per Israele” possono sembrare
scontati: se n’è parlato più d’una volta. L’importante è come poi concretizzare questi
obiettivi. Gli Stati Uniti che cosa potrebbero fare?
R. – Il fatto politico
più importante, che segue a questa visita, è il fatto che Obama torna a Washington,
ma nell’area resta il segretario di Stato Kerry, il che implica che nella strategia
della Casa Bianca questo viaggio di Obama è un punto d’inizio, in cui gli Stati Uniti
vogliono riprendere in qualche modo le fila di questo processo di pace che è congelato
da due anni. Per andare dove e con quali esiti concreti, questo è difficile da dire
oggi, soprattutto perché le posizioni delle due parti al tavolo dei negoziati sono
lontanissime. Infatti, ieri il partito più vicino al movimento dei coloni, che ora
è parte della coalizione che sostiene Netanyahu, ha subito risposto in maniera molto
secca alle dichiarazioni di Obama, dicendo che le conseguenze di quello che lui dice
si sono viste a Sderot, colpita da razzi sparati da Gaza. Quindi, se da un certo punto
di vista l’opinione pubblica è stata abbastanza positiva riguardo a questo viaggio,
all’interno dell’establishment politico israeliano non ci sono le stesse analisi
e quindi incomincia una partita che sarà comunque molto impegnativa, per John Kerry.
Vedremo dalle prossime settimane quanto Washington abbia realmente intenzione di investire
in questo tipo di negoziato e quanto potrà realmente arrivare a sbloccare una situazione
che al momento, al di là delle parole, appare ancora chiusa.
D. – L’ultimatum
all’Iran, può far pensare al progetto di Obama di creare una presenza americana più
stabile nell’area mediorientale per poter poi intervenire eventualmente anche in Siria?
R.
– Io credo che quanto Obama ha detto sull’Iran sia esattamente quanto Israele si aspettava
di sentire. Il caapo della Casa Bianca non poteva pensare di rilanciare la sua immagine
in Israele senza dire quello che ha detto sull’Iran. Da qui, però, ad una presenza
più forte ed anche a un possibile intervento diretto nello scenario siriano, io credo
che ce ne corra abbastanza! Nel senso che, comunque, Obama ha insistito sulla via
negoziale nei confronti di Teheran, dicendo che Washington è disposta a tutto pur
di fermare il programma nucleare iraniano, ma che, comunque, la via che sta dando
maggiori frutti è quella negoziale. Per questo io credo che nell’immediato non ci
saranno grandi cambi di passo rispetto a questo tipo di scenario.