Pietro Mennea " la freccia del Sud": il ricordo di Livio Berruti e Nicola Candeloro
Lo sport italiano piange la prematura scomparsa di Pietro Mennea, campione di atletica
leggera, morto a 61 anni in una clinica romana. Primatista dei 200 metri piani dal
1979 al 1996, Mennea ha raccolto molti successi nella sua vita come la medaglia d’oro
nelle Olimpiadi di Mosca del 1980. Originario di Barletta e terzo di cinque figli,
negli ultimi anni si dedicò alla professione di avvocato e anche alla politica. Benedetta
Capelli ha chiesto a Livio Berruti, medaglia d'oro nei 200 metri alle Olimpiadi
di Roma del 1960, cosa lo legava di più a Pietro Mennea:
R. - L’amore
per lo sport, anche se noi l’abbiamo esercitato in maniera diametralmente opposta:
per me lo sport era un momento di gioia, di piacevolezza e di divertimento, quasi.
Invece, lui l’ha praticato con grande tenacia, con grande spirito di sacrificio pur
di arrivare al risultato e ha dimostrato che con il sacrificio si possono ottenere
grossi risultati.
D. – Quella medaglia d’oro nel 1980, alle Olimpiadi di Mosca:
lei che ricordo ha di quel momento?
R. – Una gara molto bella, soprattutto
era stata una gara nella quale erano mancati gli americani ma anche altri, che ha
dimostrato come l’allenamento sia determinante per raggiungere i risultati. Infatti,
è stato il primo atleta – per merito del suo allenatore, il prof. Vittori – ad utilizzare
allenamenti di resistenza anche nel campo della velocità. Questo, infatti, gli ha
permesso di agguantare questa vittoria proprio negli ultimi metri della gara, a dimostrazione
che il lavoro, anche se a volte faticoso e sofferente, riesce a pagare.
D.
– Secondo lei, Mennea che cosa lascia allo sport italiano, al di là dei tanti riconoscimenti
sportivi?
R. – Lascia un esempio di una persona che, con sacrificio e grande
determinazione, riesce ad ottenere grandi risultati. Quindi, è importante applicarsi
con tenacia, con costanza e non distrarsi; infatti, lui era talmente concentrato sullo
sport, sulla gara, che anche a Capodanno a volte andava a letto presto pur di svegliarsi
il mattino dopo. Quindi, ha dimostrato come il grande lavoro abbia la possibilità
di poter dare grandi soddisfazioni.
D. – Aveva un carattere schivo: nato nel
Sud d'Italia, da una famiglia semplice … Una storia di riscatto, anche …
R.
– Sì, forse: aveva anche questa origine che gli permetteva di avere questa grande
forza di volontà per riscattarsi e per raggiungere grandi risultati.
D. – Non
vi siete mai incontrati nella vita, non vi siete sfiorati?
R. - Sì: qualche
volta sì. Però lui ha viaggiato anche per l’Iveco, che è una società della Fiat, e
io ero in Fiat, e quindi c’è stato appunto questo rapporto. Un rapporto non sempre
piacevole, perché viaggiavamo su due livelli diversi: per me lo sport era gioioso,
per lui lo sport era assoluta concentrazione e determinazione per raggiungere il risultato,
con qualsiasi sforzo. Ecco, c’era questa diversità di approccio che però otteneva
poi grandi risultati.
D. – Al di là della differenza di vedute, oggi di fronte
a questa scomparsa il suo pensiero dove va?
R. – Sono cose che colpiscono molto
e dispiacciono, perché quando manca un campione che è un punto di riferimento, dispiace
sempre. Purtroppo, dimostra che lo sport fa vivere meglio ma non ti fa vivere di più
…
Un uomo dal fisico magro e apparentemente fragile, ma con una mente straordinaria
e una forza interiore che gli ha permesso di eccellere. E’ il ricordo che di Pietro
Mennea ha Nicola Candeloro, direttore della Scuola nazionale di atletica leggera
di Formia, dove Pietro trascorreva 280 giorni l’anno come fosse una sua seconda casa.
Gabriella Ceraso lo ha intervistato:
R. – Come
direttore della scuola di Formia, lui e il suo allenatore, Vittori, vivevano qui dentro.
Quindi ho assistito ad una vita intera di allenamenti e di sacrifici.
D. –
Questo campione è stato per 17 anni detentore del record del mondo dei 200 metri.
Era un uomo infaticabile...
R. – Io credo di non aver mai visto in nessun altro
atleta la capacità di lavoro e di recupero che Pietro ha avuto.
D. – Quante
ore si allenava? Quali erano le sue abitudini?
R. – Per sua abitudine faceva
tre ore di allenamento la mattina e tre ore di allenamento il pomeriggio. Erano allenamenti
duri, intensi. Natale, Capodanno, Pasqua, per lui erano giorni di lavoro. Ha dato
molto e ha aperto nuove vie alle tecniche di allenamento, per quantità e intensità.
Per fare alcuni esempi, Berruti arrivava sul campo a suo tempo, 20 anni prima, faceva
due allunghi, due corsette e l’allenamento era finito. Mennea se doveva correre i
60 metri, li correva almeno 36 volte.
D. – Come ha fatto ad essere per 17
anni detentore di questo record, secondo lei?
R. – E’ proprio nella quantità
di lavoro che sta la sua grandezza, nella sua capacità di sopportare grossi carichi
di lavoro. Lui era, assieme al suo allenatore, un programmatore: sapevano esattamente
quello che potevano fare e fin dove si potevano spingere.
D. – Come uomo che
ricordo ha?
R. – Aveva una mente di una capacità e di una forza unica. Era
un uomo di impegno. Ha preso tre lauree: mentre si allenava e lavorava, nei momenti
di pausa non perdeva tempo e studiava. Aveva una mente sveglia, arguta, un’intelligenza
viva e faceva battute fulminanti.
D. – Per i giovani di oggi, i giovani atleti,
quelli che vogliono intraprendere questa carriera, quali sono i suggerimenti che possono
venire da questa figura?
R. – Il lavoro paga. Questo è il grosso insegnamento.
Una persona con un fisico apparentemente non adatto a combattere con gli americani,
che erano alti e con le gambe lunghe, e gli stessi russi, che erano atleti notevoli,
o anche gli inglesi e così via, per eccellere è stato costretto a lavorare molto più
degli altri ed è riuscito a metterli tutti in fila attraverso il lavoro, attraverso
l’allenamento, che era il suo vero segreto.