Obama chiede Stato per i palestinesi e condanna politica degli insediamenti israeliani
“I palestinesi si meritano un proprio Stato”: è quanto afferma il presidente degli
Stati Uniti, Obama, in conferenza stampa a Ramallah con il presidente palestinese
Abu Mazen. Obama condanna la politica degli insediamenti israeliani. Il servizio di
Fausta Speranza:
"Lo Stato palestinese
deve essere ''indipendente, in grado di sostenersi, dotato di contiguità territoriale,
accanto allo Stato di Israele”. Sono parole di Obama che ribadisce: "Non possiamo
rinunciare alla pace, non è importante quanto sia difficile raggiungerla". Riferisce
di aver detto a Netanyahu, nell'incontro di ieri a Gerusalemme, che "la politica degli
insediamenti non è nè costruttiva nè appropriata per la pace", citando in particolare
l'espansione delle colonie nella zona E-1 fra Gerusalemme e Maleeh Adumim, definendola
''non compatibile'' con la soluzione dei due Stati. Obama fotografa così la questione
centrale del conflitto israelo-palestinese: “Assicurare la sovranità ai palestinesi
e la sicurezza agli israeliani''. In Cisgiordania, dove è giunto tra imponenti misure
di sicurezza in elicottero da Gerusalemme, Obama è stato accolto da manifestazioni
di protesta. La seconda giornata del presidente Usa in Medio Oriente era cominciata
con quattro razzi sparati dalla Striscia di Gaza verso il Neghev israeliano, condannati
duramente da Obama e da Abu Mazen. Nel pomeriggio, Obama parlerà agli israeliani con
un discorso che ha voluto pronunciare all'Università di Gerusalemme e non alla Knesset.
Ieri, gli incontri con le autorità israeliane in cui ha ribadito la vicinanza tra
Tel Aviv e Washington. Al centro, soprattutto la Siria con l’incognita delle armi
chimiche e la questione iraniana.
Delle priorità della visita di Obama in Medio
Oriente, Fausta Speranza ha parlato con la studiosa Marcella Emiliani:
R. – Diciamo
che il resto del Medio Oriente vorrebbe imporgli delle priorità: tra queste, la prima
è quella che riguarda il processo di pace con i palestinesi. Il problema, però, è
che questo sembra essere l’ultimo dei temi che pressano in questo momento l’amministrazione
americana. Diciamo che i due punti più importanti sono quelli che riguardano l’Iran
e la Siria e in terzo luogo l’Egitto. Come ultimo punto c’è certamente il processo
di pace. Il nuovo governo israeliano ha già – a parole – aperto parlando di compromesso
con i palestinesi. In realtà, nei fatti continua il processo di colonizzazione della
Cisgiordania, il che significa che di processo di pace in questa fase non si può parlare.
D. – Dunque, prof.ssa Emiliani, quali possono essere i frutti di questa visita
di Obama in Israele?
R. – Si possono dire quali siano le cose che Obama vuole
da questo viaggio: se poi le porti a casa, questo è un'altra cosa. L'obiettivo più
importante è di frenare Netanyahu per un eventuale attacco all’Iran. Netanyahu, da
parte sua, vuole invece capire bene dagli Stati Uniti fin dove concederanno all’Iran
di procedere con il processo di arricchimento dell’uranio per confezionare la bomba
atomica. Netanyahu cerca una "red line" oltre la quale sapere che gli Stati Uniti
gli daranno l’ok per un eventuale attacco all’Iran. Quindi, si sta parlando di un
discorso molto importante e molto pericoloso.
D. – Invece, da un colloqui
sulla Siria cosa ci si può aspettare?
R. – In questo momento, la cosa più pressante
è che da parte dell’opposizione siriana ci si aspetta che gli Stati Uniti armino l'opposizione
stessa. Gli Stati Uniti non vogliono farlo, perché sanno benissimo che in questa opposizione
al regime di Assad ci sono dei jihadisti, quindi persone che l’hanno giurata a morte
non solo a Israele ma anche agli Stati Uniti e che peraltro sono attestati vicino
alle alture del Golan e quindi vicino ad Israele. Su questo evidentemente gli interessi
di Stati Uniti e di Israele concordano. Però, c’è un problema di "timing". Finora,
gli Stati Uniti nei confronti dell’opposizione siriana si sono mantenuti molto sulle
generali, molto tiepidi diciamo, perché molto probabilmente privilegiano l’intesa
con l’Iran: se armassero pesantemente l’opposizione al regime di Assad, l’Iran chiuderebbe
automaticamente le porte a un qualsiasi dialogo con gli Stati Uniti. Quindi, è tutto
un viaggio sul filo del rasoio, di questioni strategiche che riguardano non solo l’intera
regione, ma l’intero pianeta, perché un Iran nucleare non fa certo piacere a nessuno.
Sullo sfondo, poi, ci sono due problemi enormi: uno, sono i dieci anni dell’anniversario
dell’operazione “Iraq Freedom”, che ha abbattuto la dittatura di Saddam Hussein, lasciando
però un Iraq in preda a una anarchia abbastanza sanguinosa, come si è visto anche
nelle ultime ore dagli attentati che ci sono stati. L’altro problema è relativo alle
sorti di tutte le “primavere arabe”, prima di tutto quella in Egitto. Chiaramente,
l’interesse degli Stati Uniti è salvaguardare l’accordo di Camp David, per questo
hanno perfino sostenuto e finanziato i Fratelli musulmani. Ma è evidente che se la
deriva jahdista e fondamentalista islamica dovesse aggravarsi - non solo in Egitto,
ma anche in Tunisia – anche gli Stati Uniti dovrebbero cambiare la loro strategia.