"Gli Usa al fianco di Israele": le prime parole di Obama in visita a Tel Aviv
“Restiamo al fianco di Israele, perché è un nostro interesse di sicurezza”: è quanto
ha ribadito il presidente degli Stati Uniti, Obama, il quale, arrivato a Tel Aviv
in mattinata, ha lanciato un appello per la pace in Terra Santa. Ha parlato di legami
indissolubili tra Usa e Israele. E gli ha fatto eco il presidente di Israele, Peres,
parlando di "stessa visione". Peres ha sottolineato che "il pericolo più grande è
l'Iran". Domani, Obama si recherà in Cisgiordania dove incontrerà anche il presidente
dell'Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen (Mahmud Abbas). E’ la prima visita
all’estero del secondo mandato di Obama che ha fatto il primo saluto in ebraico. Dell’importanza
e dei vari temi in discussione, Fausta Speranza ha parlato con la studiosa
di Medio Oriente, Marcella Emiliani:
R. – Obama deve
ridefinire la sua agenda mediorientale e ovviamente Israele è e deve rimanere un punto
fermo. Diciamo che il resto del Medio Oriente vorrebbe imporgli delle priorità: tra
queste priorità, la prima è quella che riguarda il processo di pace con i palestinesi.
Il problema, però, è che questo sembra essere l’ultimo dei temi che pressano in questo
momento l’amministrazione americana. Diciamo che i due punti più importanti sono quelli
che riguardano l’Iran e la Siria e in terzo luogo l’Egitto. Come ultimo punto c’è
certamente il processo di pace. Il nuovo governo israeliano ha già – a parole – aperto,
parlando di compromesso con i palestinesi. In realtà, nei fatti continua il processo
di colonizzazione della Cisgiordania, il che significa che di processo di pace in
questa fase non si può parlare.
D. – Dunque, prof.ssa Emiliani, quali possono
essere i frutti di questa visita di Obama in Israele?
R. – Si possono dire
quali siano le cose che Obama vuole da questo viaggio: se poi le porti a casa, questo
è un'altra cosa. L'obiettivo più importante è di frenare Netanyahu per un eventuale
attacco all’Iran. Netanyahu, da parte sua, vuole invece capire bene dagli Stati Uniti
fin dove concederanno all’Iran di procedere con il processo di arricchimento dell’uranio
per confezionare la bomba atomica. Netanyahu cerca una "red line" oltre la quale sapere
che gli Stati Uniti gli daranno l’ok per un eventuale attacco all’Iran. Quindi, si
sta parlando di un discorso molto importante e molto pericoloso.
D. – Invece,
da un colloqui sulla Siria cosa ci si può aspettare?
R. – In questo momento,
la cosa più pressante è che da parte dell’opposizione siriana ci si aspetta che gli
Stati Uniti armino l'opposizione stessa. Gli Stati Uniti non vogliono farlo, perché
sanno benissimo che in questa opposizione al regime di Assad ci sono dei jihadisti,
quindi persone che l’hanno giurata a morte non solo a Israele ma anche agli Stati
Uniti e che peraltro sono attestati vicino alle alture del Golan e quindi vicino ad
Israele. Su questo evidentemente gli interessi di Stati Uniti e di Israele concordano.
Però, c’è un problema di "timing". Finora, gli Stati Uniti nei confronti dell’opposizione
siriana si sono mantenuti molto sulle generali, molto tiepidi diciamo, perché molto
probabilmente privilegiano l’intesa con l’Iran: se armassero pesantemente l’opposizione
al regime di Assad, l’Iran chiuderebbe automaticamente le porte a un qualsiasi dialogo
con gli Stati Uniti. Quindi, è tutto un viaggio sul filo del rasoio, di questioni
strategiche che riguardano non solo l’intera regione, ma l’intero pianeta, perché
un Iran nucleare non fa certo piacere a nessuno. Sullo sfondo, poi, ci sono due problemi
enormi: uno, sono i dieci anni dell’anniversario dell’operazione “Iraq Freedom”, che
ha abbattuto la dittatura di Saddam Hussein, lasciando però un Iraq in preda a una
anarchia abbastanza sanguinosa, come si è visto anche nelle ultime ore dagli attentati
che ci sono stati. L’altro problema è relativo alle sorti di tutte le “primavere arabe”,
prima di tutto quella in Egitto. Chiaramente, l’interesse degli Stati Uniti è salvaguardare
l’accordo di Camp David, per questo hanno perfino sostenuto e finanziato i Fratelli
musulmani. Ma è evidente che se la deriva jahdista e fondamentalista islamica dovesse
aggravarsi - non solo in Egitto, ma anche in Tunisia – anche gli Stati Uniti dovrebbero
cambiare la loro strategia.