La Messa pre-Conclave 2005, quando il cardinal Ratzinger parlò da Benedetto XVI
Il pomeriggio del 18 aprile 2005, iniziava il Conclave che avrebbe portato all’elezione
di Benedetto XVI. Per una coincidenza ormai entrata nei libri di storia, quella stessa
mattina fu lo stesso Joseph Ratzinger, in veste di cardinale decano, a presiedere
nella Basilica di San Pietro la Missa pro eligendo Pontifice. Alessandro
De Carolis ripropone alcuni passaggi centrali dell’omelia di colui che, il giorno
dopo, si sarebbe presentato alla Chiesa come il 264.mo Successore di Pietro:
Trenta ore prima,
l’umile lavoratore non parla della Vigna del Signore, ma di come la terra possa essere
cambiata “da valle di lacrime in giardino di Dio”: ci vogliono, dice, cristiani dotati
di una “fede adulta”, che siano amici di Cristo e nemici del relativismo. Trenta ore
prima, guardato dalle telecamere del mondo, il cardinale Ratzinger è come se prendesse
spiritualmente per mano la Chiesa con un giorno di anticipo sulla storia. In piedi
sull’altare della Confessione, vestito dei paramenti rossi, l’amico di Giovanni Paolo
II parla esattamente come – dal giorno dopo e per otto anni – parlerà Benedetto XVI.
Impressiona rileggere l’omelia di quella mattina alla luce del magistero che ora si
conosce. Alle 10.31, quando inizia a parlare, il cardinale Ratzinger non fa altro
che commentare le letture previste dalla liturgia della Messa. La riflessione che
ne scaturisce è però un appassionato e sintetico preludio del magistero che verrà.
A cominciare da quell’ormai celebre osservazione, mutuata da San Paolo, per cui coloro
che sono “fanciulli nella fede” sono facilmente “sballottati” qua e là “da qualsiasi
vento di dottrina”:
“Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi
ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola
barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde gettata
da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo fino al libertinismo…”.
L’elenco
continua: dal collettivismo all’individualismo radicale, dall’ateismo ad un vago misticismo
religioso, dall’agnosticismo al sincretismo. Derive contro le quali il cardinale muove
la medesima obiezione che ribadirà mille volte da Papa:
“Avere una fede
chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo.
Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare ‘qua e là da qualsiasi vento di dottrina’,
appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo
una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia
come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”.
La Basilica è gremita,
ascolta in silenzio e si rende conto che quello che gli esperti definiscono un grande
teologo non parla per astruserie intellettuali, ma chiaro e diritto al cuore. Non
è difficile da capire quando spiega cosa voglia dire avere una “fede adulta”:
“’Adulta’
non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una
fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. É quest’amicizia che ci apre
a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra
inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare
il gregge di Cristo. Ed è questa fede - solo la fede - che crea unità e si realizza
nella carità”.
È il cardinale anziano che sta parlando, non il Papa, ma
forse qualcuno, in quei 29 minuti, non avrà notato la differenza. Forse neanche quando,
quell’uomo in piedi vestito di rosso, tira le conclusioni del suo discorso scrutando
i cardinali e, attraverso di loro, il futuro della Chiesa, che sta per giungere. E
che trenta ore dopo lo vedrà riapparire con un abito diverso e con la stessa luminosità
e saldezza di fede:
“Dobbiamo essere animati da una santa inquietudine:
l’inquietudine di portare a tutti il dono della fede, dell’amicizia con Cristo (...)
E dobbiamo portare un frutto che rimanga. Tutti gli uomini vogliono lasciare una traccia
che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i
libri nemmeno. Dopo un certo tempo, più o meno lungo, tutte queste cose scompaiono.
L’unica cosa, che rimane in eterno, è l’anima umana, l’uomo creato da Dio per l’eternità.
Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane – l’amore,
la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l’anima alla
gioia del Signore. Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare
frutto, un frutto che rimane. Solo così la terra viene cambiata da valle di lacrime
in giardino di Dio”.