Memoria di S. Giovanni di Dio. Fra Fabello: la società ha urgente bisogno di buoni
samaritani
L’8 marzo 1550 si spegneva a Granada, in Spagna, San Giovanni di Dio. Soldato, bracciante,
libraio, Juan Ciudad, questo il suo nome, dopo aver ascoltato Giovanni d’Avila si
convertì alla fede, vendette tutto e si fece mendicante per aiutare i più poveri.
Colpito dalla drammatica situazione in cui versavano i malati della sua epoca, nel
1539 fonda un ospedale, primo della straordinaria e benemerita opera che da 500 anni
svolgono i Fatebenefratelli, così come è universalmente conosciuto l’Ordine da lui
fondato dei Fratelli Ospedalieri. Fra Marco Fabello, direttore della Rivista
Fatebenefratelli e direttore generale dell’Istituto di ricovero e cura Fatebenefratelli
di Brescia, intervistato da Alessandro De Carolis, prende spunto dalla figura
del Buon Samaritano evocata da Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Giornata del
malato di quest’anno:
R. - Il Buon
Samaritano è l’icona che, soprattutto al mondo di oggi, è necessaria. E possiamo anche
pensare anche all’albergatore che, ai tempi d’oggi, non si fiderebbe tanto di uno
che dice: “Ti pagherò dopo”. Oggi, non c’è questa disponibilità all’accoglienza, c’è
diffidenza e non c’è molta solidarietà. In questa sanità che un po’ langue, io credo
che possiamo sentirci tutti un po’ più insicuri, forse tutti abbiamo bisogno di qualcuno
che ci soccorra, perché stiamo andando in un mondo per cui, in una nazionalità per
ricchi, i poveri saranno sempre più poveri.
D. - Nel suo Messaggio il Papa
scrive: “Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore che guarisce l’uomo,
bensì la capacità di accettare la tribolazione unendola a quella di Cristo”. I Fatebenefratelli
in che modo vivono questo nella pratica ospedaliera?
R. - E’ chiaro che viviamo
un po’ la situazione di difficoltà del mondo che ci circonda. Ma il senso dell’umanizzazione,
del portare e avere come centro di riferimento il malato, il cercare di condurre i
familiari dei malati in una certa direzione, l’avere a cuore soprattutto le persone
più deboli – i malati di mente in particolare e i malati di Alzheimer – ma comunque
tutte le persone che hanno più difficoltà nella vita, è quello che cerchiamo di fare,
anche con recenti aperture, con centri per malati in coma o per nuove forme psichiatriche.
Stiamo cercando di dare una risposta – come buoni samaritani – cercando di fare nel
migliore dei modi, con i limiti che abbiamo, ma teniamo sempre presente questo segno
che Giovanni di Dio ci ha donato – scritto grosso nel cuore e nell’anima – di essere
ospitali: ospitare l’uomo, ospitare la persona che ha tanti problemi e che aspetta
solo che qualcuno gli tenda la mano.
D. - Alla fine del suo Messaggio, Benedetto
XVI ringrazia tutte le istituzioni cattoliche che, come la vostra, vivono la missione
di assistere i malati. Cosa significano per voi queste parole del Papa?
R.
- Sono importantissime in questo periodo, soprattutto oggi che le istituzioni cattoliche
soffrono tremendamente per il momento che stanno vivendo. Anche noi stiamo patendo
la situazione e la viviamo come senso di povertà: abbiamo fatto il voto di povertà,
ma adesso lo stiamo vivendo nel senso che non riusciamo sempre a essere per i malati
la risposta giusta, perché la situazione è quella che purtroppo conosciamo. Però,
ci vengono in contro figure importanti – il Papa lo dice – come il prossimo Beato
Luigi Novarese, Roul Follereau, Beata Teresa di Calcutta, Giovanni di Dio, aggiungo
io, e altri che possono rappresentare i punti di riferimento che ci aiutino ad avere
più fede e forse ad avere più speranza, perché le difficoltà delle nostre strutture
sanitarie cattoliche potranno essere superate a condizione che siano sempre più cattoliche.
Più cattoliche non nel senso di esclusivismo, ma nel senso di essere universali, di
essere più attente ai malati e ai loro bisogni, a essere più aperte. La qualità dell’assistenza,
in termini di valore e di carisma, devono far la differenza. Diversamente non risolviamo
– o risolviamo poco – i problemi.