Rapporto Caritas: crescono i nuovi poveri a Torino
A Torino presentati i risultati di un’indagine qualitativa e quantitativa sull’andamento
della povertà relativa e della vulnerabilità sociale nel territorio dell'arcidiocesi
piemontese. Si tratta di dati che riflettono anche la realtà della povertà in Italia,
segnata da nuove e repentine forme di indigenza seguite, spesso, alla perdita del
lavoro. Su questa indagine, si sofferma al microfono di Amedeo Lomonaco, il
direttore dell'ufficio diocesano della Caritas di Torino, Pierluigi Dovis:
R. - Nel territorio
diocesano di Torino, soprattutto della città di Torino, nell’ultimo anno, cioè nel
2012, abbiamo visto un incremento quantitativo di richieste al solo centro di ascolto
diocesano, che si chiama “Le due tuniche”, del 45 per cento in più rispetto all’anno
precedente. Questo è un andamento che su tutta l’arcidiocesi di Torino possiamo attestare
tranquillamente intorno al 30 per cento in più rispetto all’anno scorso o rispetto
a due anni fa. Ma quello che ci preoccupa, non sono tanto i numeri in più, quanto
la qualità delle persone o la qualità negativa della povertà che le persone ci presentano
venendo a trovarci.
D. - Una povertà materiale cui si aggiungono forme di
povertà ben più profonde e ben più preoccupanti…
R. - Certamente, perché molte
di queste persone, che noi incontriamo, sono i cosiddetti “nuovi poveri”: coloro che,
pur avendo avuto un lavoro anche per diversi anni e anche una buona posizione sociale,
repentinamente si sono trovati - quasi sempre a causa della perdita del lavoro - in
una situazione che, prima che dal punto di vista economico, rende loro difficile interiormente
avere quella serenità d’animo che permetta, ad esempio, di rimboccarsi le maniche
e poter passare alla ricerca o all’invenzione di qualche altro tipo di lavoro. Molti
di loro sono caduti in depressione, soprattutto se sono uomini e se sono nella fascia
di età tra i 45 e i 55 anni. Molte volte si è prodotta la rottura dei rapporti interni
alla famiglia. Molte di queste persone si vergognano terribilmente della situazione
nella quale è finita e quindi non chiedono aiuto fino all’ultimo momento, quando ormai
sono già in una situazione di quasi miseria.
D. - A questa richiesta di aiuto
non sempre poi corrisponde una risposta adeguata da parte della società…
R.
- Quasi mai da parte delle istituzioni, perché non abbiamo ancora le categorie per
intercettare, capire, aiutare e seguire questa categoria di persone; da parte della
società civile, vedo - almeno nel mio contesto territoriale - una certa chiusura rispetto
alle persone che vivono questa forma di povertà, tant’è che si sta definendo una sorta
di forbice, che si sta aprendo all’interno della società torinese: una parte - che
è ancora preponderante a livello di numeri - se la cava, ma creando spesso e volentieri
delle barriere invisibili nei confronti dell’altra parte di popolazione - minoritaria,
dal punto di vista dei numeri - che invece incontra tutto questo tipo di difficoltà.
Questa cosa ci preoccupa anzitutto come persone e ci preoccupa come cristiani, perché
dal punto di vista proprio della relazione vediamo che stanno nascendo delle idee
che non aiutano la coesione, non aiutano la solidarietà e non aiutano l’alleanza.
E’ per questo che, insieme al nostro arcivescovo, stiamo lavorando in questi mesi
per aiutare le persone e la società a riflettere sul valore dell’alleanza: alleanza
tra di noi, alleanza tra la Chiesa e le istituzioni, alleanza anche con le persone
più povere, perché solo attraverso questa responsabilità condivisa, messa in gioco
in modo diverso in un momento di crisi e di difficoltà, noi pensiamo si possa affrontare
- e magari superare - il momento di particolare difficoltà che il nostro territorio
sta vivendo.
D. - Quindi occorre un’alleanza proprio per il territorio di
Torino, anche se questa non è una realtà atipica. Quella di Torino è un po’ una situazione
che riflette l’andamento del Paese…
R. - Direi di sì. Torino è sempre stata
una città che ha anticipato i fenomeni dal punto di vista di tutta la nazione italiana.
Per cui ritengo che potrebbe ancora essere il laboratorio per una rielaborazione del
welfare locale, che vada nell’ottica proprio della fraternità, di quella fraternità
che la ‘Caritas in veritate’ ci ha aiutato a riscoprire non solo come tensione etica,
ma anche come legge che può regolare non solo l’economia, ma anche il vivere civile.