Dieci anni fa scoppiava il conflitto nella regione sudanese del Darfur. Ancora oggi
resta difficile la situazione in questa zona e negli ultimi giorni sono nuovamente
scoppiati scontri tra tribù rivali. Dall’inizio di gennaio, sono oltre 500 i morti
e 900 i feriti. Recentemente, è stato presentato un rapporto sul Paese africano: “Sudan,
Darfur 10 anni dopo”. L’ha curato Antonella Napoli. L’intervista è di Benedetta
Capelli:
R. – Nonostante
la guerra su larga scala sia finita, permangono sacche di resistenza di ribellione
soprattutto al nord del Darfur, dove continuano a contrapporsi l’esercito del governo
e il fronte dei ribelli che ancora oggi porta avanti la ribellione darfuriana. Inoltre,
si è aperto un altro fronte nell’area del Jebel Amir, dove sono state scoperte e aperte
miniere d’oro che vengono contese da varie etnie. Quindi, nel giro di pochi giorni,
si sono susseguiti scontri, sono andati distrutti, bruciati, 25 villaggi e sono rimaste
senza casa quasi 100 mila persone.
D. - Nel vostro Rapporto “Sudan-Darfur,
10 anni di crisi”, si evidenzia anche la drammaticità della situazione umanitaria.
Tempo fa, la crisi in Darfur vene proprio definita la più grande crisi umanitaria
del mondo…
R. – Parliamo di oltre 300 mila vittime, di più di due milioni di
sfollati, con progetti di assistenza sanitaria e scolarizzazione sospesi, perché molte
organizzazioni non governative sono state espulse. Purtroppo, con questi continui
nuovi scontri si registra un peggioramento della situazione umanitaria.
D.
– Quali sono, secondo te, gli interventi necessari per far sì che anche la ferita
della guerra possa essere sanata?
R. – Innanzitutto, serve un intervento più
pressante da parte della comunità internazionale, affinché il Sudan smetta con le
vessazioni, con gli attacchi nei confronti delle popolazioni civili, perché è vero
che si contrappongono ai ribelli, ma chi ci rimette è la popolazione civile. Poi,
devono essere sostituite le ong che erano state espulse, perché quelle che poi hanno
cercato di sopperire alle mancanze non sono state in grado di fronteggiare le emergenze
che sono seguite.
D. – C’è un aspetto particolare evidenziato nel vostro Rapporto,
una sorta di “primavera sudanese” anche in questo Paese. Di che si tratta?
R.
– Sì, soprattutto grazie agli studenti che si sono mobilitati per denunciare le violazioni
dei diritti umani che purtroppo permangono nel Paese. Attraverso il web, che è l’unico
modo che hanno per far sentire la propria voce, hanno divulgato, diffuso, notizie
di arresti, violenze, torture, che hanno subito questi giovani, che continuano a manifestare
la voglia di democrazia molto forte in qusto Paese.