Egitto e Tunisia, due Paesi alla ricerca di stabilità
“L'Unione Europea esorta tutte le parti politiche in Tunisia a trovare un accordo".
E' quanto si legge in una nota giunta da Bruxelles all'indomani delle dimissioni del
premier tunisino, Jebali. Il capo del governo aveva tentato, senza successo, di costituire
un governo tecnico, con il quale affrontare la crisi che soffoca il Paese in campi
come l'economia, la sicurezza e la stessa politica. La Tunisia vive, dunque, un momento
di transizione particolarmente delicato, non del tutto dissimile rispetto a quanto
sta avvenendo in Egitto: entrambi i Paesi due anni fa sono stati percorsi dai sommovimenti
popolari della "primavera "araba ed entrambi oggi sono alla ricerca di un futuro di
stabilità. Ma c’è effettivamente un filo invisibile che unisce queste due importanti
realtà che si affacciano sul bacino del Mediterraneo? Salvatore Sabatino lo
ha chiesto ad Alberto Ventura, docente di Storia dei Paesi islamici all’Università
della Calabria:
R. – Il filo
c’è, forse neanche troppo invisibile proprio perché, com’è noto, le rivolte di un
paio di anni fa sono nate a cascata: si sono così riprodotte, in un certo senso, per
imitazione l’una con l’altra e riflettevano un’esigenza di fondo, comune a molti di
questi Paesi, di liberarsi da regimi dispotici, non democratici, che soffocavano le
libertà individuali, le possibilità di espressione. Insomma, sono state soprattutto
rivolte civili che hanno avuto questo filo comune. Il filo, invece, si fa un po’ meno
comune per quanto riguarda il dopo rivoluzione e infatti vediamo che nei vari Paesi
le problematiche sono diverse. Gli stessi Egitto e Tunisia – che adesso sono accomunati
da una situazione di instabilità – non sono del tutto assimilabili l’uno all’altro.
E vediamo, ad esempio, come la Libia o la vicinissima Algeria stiano vivendo una fase
completamente diversa. Bisogna quindi esaminare da una parte il tessuto complessivo
di queste rivolte e di quello che sta succedendo e, dall’altra, più specificatamente
entrare nel dettaglio di ogni singolo Paese.
D. – C’è anche il problema delle
due Costituzioni di questi Paesi, entrambe legate a doppio filo alla sharia, la legge
islamica...
R. – Direi che la differenza è notevole, perché in Tunisia, nonostante
il partito Ennahda, che ha vinto le elezioni e che costituisce la maggioranza di governo,
sia un partito islamista fondamentalmente, le componenti laiche che hanno partecipato
al governo e la stessa Assemblea costituente, quella presieduta da Ben Jafar, hanno
più volte garantito – e direi non soltanto a parole, mi sembra – la difesa di alcuni
principi di laicità sostanziale. Anche se è evidente che un qualche elemento, qui
e lì, si possa introdurre nelle Costituzioni che riporti i Paesi ad un’osservanza
islamica, però direi più in termini di valori generali che non di normative precise.
In Egitto, la situazione è un po’ più complessa perché lì, da tempo, alcune istanze
islamiste erano state accolte già dal precedente regime, per tacitare appunto le opposizioni,
e mi sembra che forse il rischio di un qualche passo indietro possa essere più evidente.
D.
– Tra l’altro, proprio in Egitto viviamo una situazione abbastanza particolare. Morsi,
il presidente, è molto criticato all’interno del Paese mentre è abbastanza apprezzato
dalle cancellerie internazionali per il ruolo di mediazione che può avere con i Fratelli
musulmani, il suo partito...
R. – La situazione è da analizzare. Però, anche
lì dobbiamo tener conto delle esperienze passate, nel senso che molto spesso l’Occidente
ha favorito, comunque non ha sfavorito, alcuni regimi, tendenzialmente radicali, nella
speranza che tali regimi potessero in qualche misura costituire un elemento di equilibrio
e di stabilità. Bisogna però essere un po’ meno "miopi" e vedere nelle mani di chi
ci si affida. Ora – per quanto indubbiamente il governo egiziano sia un governo non
terrorista, o se vogliamo non di un fondamentalismo troppo spinto – comunque appartiene
a quell’ambito di un islam puritano, rigorista e così via che in me suscita qualche
preoccupazione. Non possiamo escludere che poi la "deriva islamista", come viene definita,
non si affermi in una misura o nell’altra.
D. – Le dimissioni del premier
Jebali, in Tunisia, gettano un’ombra sul già difficile percorso di normalizzazione
del Paese. Le divisioni interne al partito Ennahda potranno bloccare questo processo
già difficile?
R. – Direi di sì, perché indubbiamente anche quando parliamo
di questi movimenti islamisti, noi tendiamo a essere un po’ generici e a pensare che
siano dei "monoliti", dei corpi abbastanza unici. In realtà, c’è una dialettica piuttosto
serrata all’interno di questi partiti di ispirazione islamica. Sembrerebbe proprio
che le dimissioni di Jebali siano in sostanza un atto di rottura, di forte rottura,
all’interno di Ennahda e quindi testimoniano uno stato di tensione all’interno di
questi partiti islamisti, che secondo me riflette quello che dicevo prima, a proposito
dell’Egitto, cioè che gli stessi partiti islamisti si trovino stretti tra due esigenze:
da una parte, una certa credibilità internazionale, quindi un atteggiamento moderato,
dialogante, e così via, mentre dall’altra le pressioni degli elementi più radicali
al loro interno e anche le pressioni esterne a certi partiti di governo, come quelle
dei movimenti salafiti, che quantitativamente non sono particolarmente importanti,
ma che dal punto di vista però delle pressioni sui movimenti di governo tentano di
contestare il primato islamico ai partiti di governo.