Rivolta al Cie di Ponte Galeria. Caritas: un luogo paradossale e disumano
“Il decreto flussi ha dimostrato di non funzionare; per chi cerca asilo in Italia
non ci sono reali percorsi di integrazione e i Centri di identificazione e espulsione
(Cie) sono luoghi paradossali e sbagliati”. E’ la riflessione di don Emanuele Giannone
direttore della Caritas diocesana di Porto Santa Rufina, dopo la sommossa scoppiata
ieri tra immigrati nigeriani al Cie di Ponte Galeria, in seguito a un ordine di espulsione.
In tanti, sindacati e associazioni, denunciano le critiche condizioni di vita nei
Cie, paragonandoli alle prigioni. Così la pensa anche don Emanuele, ascoltiamo la
sua testimonianza al microfono di Gabriella Ceraso. Sentiamo la sua testimonianza:
R. – Anche io
mi sento di definirlo una prigione, perché è un luogo dove, di fatto, le persone sono
trattenute in maniera forzosa. Il problema è che la situazione all’interno dei Cie
è più grave di una prigione classica, perché in una prigione uno ci sta per una condanna:
sa quanti giorni ci deve stare, che pena deve scontare e sa anche che c’è un regolamento
che gli permette comunque di affrontare la giornata. Tutto questo, invece, nel Cie
non c’è, perché le persone non sanno quanti giorni ci devono stare, non conoscono
il reato, anzi la gran parte degli ospiti sono usciti dal carcere e dicono “io quella
pena l’ho pagata”. C’è una situazione, dunque, umanamente disastrosa.
D. –
Il sindaco di Roma, e non solo, ha detto che è un luogo “sicuramente brutto, non entusiasmante,
ma è necessario per contrastare l’immigrazione abusiva, illegale degli extracomunitari.
Stiamo parlando di nigeriani. Lei è d’accordo?
R. – Assolutamente no, non sono
d’accordo. Basta vedere i numeri. Intanto, chi sta dentro il Cie non è detto che sia
entrato illegalmente in Italia, anzi la maggior parte degli ospiti del Cie sono entrati
regolarmente. Poi, per tutta una serie di motivi, si ritrovano a essere portati nel
Centro di identificazione. Quindi, non risponde assolutamente alla necessità di contrastare
l’immigrazione, che sia regolare o clandestina. Ma il problema è che il Cie è una
struttura sbagliata in sé, perché quando vado lì trovo il povero immigrato che non
ha commesso nessun reato, o che magari ha commesso una stupidaggine come avere un
documento scaduto, e che si ritrova in un luogo accanto a un pluripregiudicato. E’
un luogo dove si tengono le persone senza tener conto della loro storia, della loro
situazione. Si crea, quindi, veramente un luogo disumano, che non tiene conto della
dignità della persona, nonostante la buona volontà di tutti gli operatori che vi lavorano
e delle forze di polizia.
D. – Dato che in questi casi si ripete che bisogna
ripensare alle politiche migratorie, per dare dignità alle persone, secondo lei cosa
è necessario fare?
R. – Gestire le politiche migratorie, a partire dalle situazioni
diverse dei Paesi di provenienza. Per quanto invece riguarda il Cie, non mettere al
loro interno chi viene da un percorso detentivo: che vengano rimpatriati alla fine
della pena, se devono essere rimpatriati. E, diversamente, si creino varie sezioni
all’interno del Cie, in modo che chi va lì sappia perché sta lì e cosa gli accadrà.
L’indeterminatezza, infatti, esaspera le persone, oltre che farle diventare una nullità.