Benedetto XVI incontra i parroci di Roma: una "piccola chiacchierata" sul Concilio
Incontro intenso nell’Aula Paolo VI in Vaticano tra Benedetto XVI e i sacerdoti di
Roma. Il Papa ha parlato del Concilio come lo ha vissuto lui: 45 minuti a braccio,
l'ha definita una "piccola chiacchierata", senza un’esitazione. Di seguito il testo
integrale:
Eminenza, cari fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio!
E’
per me un dono particolare della Provvidenza che, prima di lasciare il ministero petrino,
possa ancora vedere il mio clero, il clero di Roma. E’ sempre una grande gioia vedere
come la Chiesa vive, come a Roma la Chiesa è vivente; ci sono Pastori che, nello spirito
del Pastore supremo, guidano il gregge del Signore. E’ un clero realmente cattolico,
universale, e questo risponde all’essenza della Chiesa di Roma: portare in sé l’universalità,
la cattolicità di tutte le genti, di tutte le razze, di tutte le culture. Nello stesso
tempo, sono molto grato al Cardinale Vicario che aiuta a risvegliare, a ritrovare
le vocazioni nella stessa Roma, perché se Roma, da una parte, dev’essere la città
dell’universalità, dev’essere anche una città con una propria forte e robusta fede,
dalla quale nascono anche vocazioni. E sono convinto che, con l’aiuto del Signore,
possiamo trovare le vocazioni che Egli stesso ci dà, guidarle, aiutarle a maturare,
e così servire per il lavoro nella vigna del Signore.
Oggi avete confessato
davanti alla tomba di san Pietro il Credo: nell’Anno della fede, mi sembra un atto
molto opportuno, necessario forse, che il clero di Roma si riunisca sulla tomba dell’Apostolo
al quale il Signore ha detto: “A te affido la mia Chiesa. Sopra di te costruisco la
mia Chiesa” (cfr Mt 16,18-19). Davanti al Signore, insieme con Pietro, avete confessato:
“Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo” (cfr Mt 16,15-16). Così cresce la Chiesa:
insieme con Pietro, confessare Cristo, seguire Cristo. E facciamo questo sempre. Io
sono molto grato per la vostra preghiera, che ho sentito – l’ho detto mercoledì –
quasi fisicamente. Anche se adesso mi ritiro, nella preghiera sono sempre vicino a
tutti voi e sono sicuro che anche voi sarete vicini a me, anche se per il mondo rimango
nascosto.
Per oggi, secondo le condizioni della mia età, non ho potuto preparare
un grande, vero discorso, come ci si potrebbe aspettare; ma piuttosto penso ad una
piccola chiacchierata sul Concilio Vaticano II, come io l’ho visto. Comincio con un
aneddoto: io ero stato nominato nel ’59 professore all’Università di Bonn, dove studiano
gli studenti, i seminaristi della diocesi di Colonia e di altre diocesi circostanti.
Così, sono venuto in contatto con il Cardinale di Colonia, il Cardinale Frings. Il
Cardinale Siri, di Genova – mi sembra nel ’61 - aveva organizzato una serie di conferenze
di diversi Cardinali europei sul Concilio, e aveva invitato anche l’Arcivescovo di
Colonia a tenere una delle conferenze, con il titolo: Il Concilio e il mondo del pensiero
moderno.
Il Cardinale mi ha invitato – il più giovane dei professori – a scrivergli
un progetto; il progetto gli è piaciuto e ha proposto alla gente, a Genova, il testo
come io l’avevo scritto. Poco dopo, Papa Giovanni lo invita ad andare da lui e il
Cardinale era pieno di timore di avere forse detto qualcosa di non corretto, di falso,
e di venire citato per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora. Sì, quando
il suo segretario lo ha vestito per l’udienza, il Cardinale ha detto: “Forse adesso
porto per l’ultima volta questo abito”. Poi è entrato, Papa Giovanni gli va incontro,
lo abbraccia, e dice: “Grazie, Eminenza, lei ha detto le cose che io volevo dire,
ma non avevo trovato le parole”. Così, il Cardinale sapeva di essere sulla strada
giusta e mi ha invitato ad andare con lui al Concilio, prima come suo esperto personale;
poi, nel corso del primo periodo - mi pare nel novembre ’62 – sono stato nominato
anche perito ufficiale del Concilio.
Allora, noi siamo andati al Concilio non
solo con gioia, ma con entusiasmo. C’era un’aspettativa incredibile. Speravamo che
tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova Pentecoste, una nuova era della
Chiesa, perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta in quel tempo, la prassi domenicale
ancora buona, le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa erano già un po’ ridotte,
ma ancora sufficienti. Tuttavia, si sentiva che la Chiesa non andava avanti, si riduceva,
che sembrava piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del futuro. E in
quel momento, speravamo che questa relazione si rinnovasse, cambiasse; che la Chiesa
fosse di nuovo forza del domani e forza dell’oggi. E sapevamo che la relazione tra
la Chiesa e il periodo moderno, fin dall’inizio, era un po’ contrastante, cominciando
con l’errore della Chiesa nel caso di Galileo Galilei; si pensava di correggere questo
inizio sbagliato e di trovare di nuovo l’unione tra la Chiesa e le forze migliori
del mondo, per aprire il futuro dell’umanità, per aprire il vero progresso. Così,
eravamo pieni di speranza, di entusiasmo, e anche di volontà di fare la nostra parte
per questa cosa. Mi ricordo che un modello negativo era considerato il Sinodo Romano.
Si disse - non so se sia vero – che avessero letto i testi preparati, nella Basilica
di San Giovanni, e che i membri del Sinodo avessero acclamato, approvato applaudendo,
e così si sarebbe svolto il Sinodo. I Vescovi dissero: No, non facciamo così. Noi
siamo Vescovi, siamo noi stessi soggetto del Sinodo; non vogliamo soltanto approvare
quanto è stato fatto, ma vogliamo essere noi il soggetto, i portatori del Concilio.
Così anche il Cardinale Frings, che era famoso per la fedeltà assoluta, quasi scrupolosa,
al Santo Padre, in questo caso disse: Qui siamo in altra funzione. Il Papa ci ha convocati
per essere come Padri, per essere Concilio ecumenico, un soggetto che rinnovi la Chiesa.
Così vogliamo assumere questo nostro ruolo.
Il primo momento, nel quale questo
atteggiamento si è mostrato, è stato subito il primo giorno. Erano state previste,
per questo primo giorno, le elezioni delle Commissioni ed erano state preparate, in
modo – si cercava – imparziale, le liste, i nominativi; e queste liste erano da votare.
Ma subito i Padri dissero: No, non vogliamo semplicemente votare liste già fatte.
Siamo noi il soggetto. Allora, si sono dovute spostare le elezioni, perché i Padri
stessi volevano conoscersi un po’, volevano loro stessi preparare delle liste. E così
è stato fatto. I Cardinali Liénart di Lille, il Cardinale Frings di Colonia avevano
pubblicamente detto: Così no. Noi vogliamo fare le nostre liste ed eleggere i nostri
candidati. Non era un atto rivoluzionario, ma un atto di coscienza, di responsabilità
da parte dei Padri conciliari.
Così cominciava una forte attività per conoscersi,
orizzontalmente, gli uni gli altri, cosa che non era a caso. Al “Collegio dell’Anima”,
dove abitavo, abbiamo avuto molte visite: il Cardinale era molto conosciuto, abbiamo
visto Cardinali di tutto il mondo. Mi ricordo bene la figura alta e snella di mons.
Etchegaray, che era Segretario della Conferenza Episcopale Francese, degli incontri
con Cardinali, eccetera. E questo era tipico, poi, per tutto il Concilio: piccoli
incontri trasversali. Così ho conosciuto grandi figure come Padre de Lubac, Daniélou,
Congar, eccetera. Abbiamo conosciuto vari Vescovi; mi ricordo particolarmente del
Vescovo Elchinger di Strasburgo, eccetera. E questa era già un’esperienza dell’universalità
della Chiesa e della realtà concreta della Chiesa, che non riceve semplicemente imperativi
dall’alto, ma insieme cresce e va avanti, sempre sotto la guida – naturalmente – del
Successore di Pietro.
Tutti, come ho detto, venivano con grandi aspettative;
non era mai stato realizzato un Concilio di queste dimensioni, ma non tutti sapevano
come fare. I più preparati, diciamo quelli con intenzioni più definite, erano l’episcopato
francese, tedesco, belga, olandese, la cosiddetta “alleanza renana”. E, nella prima
parte del Concilio, erano loro che indicavano la strada; poi si è velocemente allargata
l’attività e tutti sempre più hanno partecipato nella creatività del Concilio. I francesi
ed i tedeschi avevano diversi interessi in comune, anche con sfumature abbastanza
diverse. La prima, iniziale, semplice - apparentemente semplice – intenzione era la
riforma della liturgia, che era già cominciata con Pio XII, il quale aveva già riformato
la Settimana Santa; la seconda, l’ecclesiologia; la terza, la Parola di Dio, la Rivelazione;
e, infine, anche l’ecumenismo. I francesi, molto più che i tedeschi, avevano ancora
il problema di trattare la situazione delle relazioni tra la Chiesa e il mondo.
Cominciamo
con il primo. Dopo la Prima Guerra Mondiale, era cresciuto, proprio nell’Europa centrale
e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità
della liturgia, che era finora quasi chiusa nel Messale Romano del sacerdote, mentre
la gente pregava con propri libri di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore
della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto,
della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo.
Ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava
la Messa secondo il Messale, ed i laici, che pregavano, nella Messa, con i loro libri
di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare.
Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica,
umana, spirituale del Messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo,
un piccolo chierichetto, dicesse “Et cum spiritu tuo” eccetera, ma che fosse realmente
un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia
del popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero
al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia.
Io trovo adesso,
retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare
il primato di Dio, il primato dell’adorazione. “Operi Dei nihil praeponatur”: questa
parola della Regola di san Benedetto (cfr 43,3) appare così come la suprema regola
del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma
non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale parlare
su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella
comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo senso,
al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi,
è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che agli inizi del Concilio stia
la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione. Adesso non vorrei entrare nei dettagli della
discussione, ma vale la pena sempre tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio
stesso, alla sua profondità e alle sue idee essenziali.
Ve n’erano, direi,
diverse: soprattutto il Mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi
della vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale
e nella domenica che è sempre il giorno della Risurrezione. Sempre di nuovo cominciamo
il nostro tempo con la Risurrezione, con l’incontro con il Risorto, e dall’incontro
con il Risorto andiamo al mondo. In questo senso, è un peccato che oggi si sia trasformata
la domenica in fine settimana, mentre è la prima giornata, è l’inizio; interiormente
dobbiamo tenere presente questo: che è l’inizio, l’inizio della Creazione, è l’inizio
della ricreazione nella Chiesa, incontro con il Creatore e con Cristo Risorto. Anche
questo duplice contenuto della domenica è importante: è il primo giorno, cioè festa
della Creazione, noi stiamo sul fondamento della Creazione, crediamo nel Dio Creatore;
e incontro con il Risorto, che rinnova la Creazione; il suo vero scopo è creare un
mondo che è risposta all’amore di Dio.
Poi c’erano dei principi: l’intelligibilità,
invece di essere rinchiusi in una lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la
partecipazione attiva. Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi. Intelligibilità
non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie
a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una
formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità
nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio – se penso giorno
per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle Epistole
paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria
lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare
intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un
entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione
con Cristo.
Secondo tema: la Chiesa. Sappiamo che il Concilio Vaticano I era
stato interrotto a causa della guerra tedesco-francese e così è rimasto con una unilateralità,
con un frammento, perché la dottrina sul primato - che è stata definita, grazie a
Dio, in quel momento storico per la Chiesa, ed è stata molto necessaria per il tempo
seguente - era soltanto un elemento in un’ecclesiologia più vasta, prevista, preparata.
Così era rimasto il frammento. E si poteva dire: se il frammento rimane così come
è, tendiamo ad una unilateralità: la Chiesa sarebbe solo il primato. Quindi già dall’inizio
c’era questa intenzione di completare l’ecclesiologia del Vaticano I, in una data
da trovare, per una ecclesiologia completa. Anche qui le condizioni sembravano molto
buone perché, dopo la Prima Guerra Mondiale, era rinato il senso della Chiesa in modo
nuovo. Romano Guardini disse: “Nelle anime comincia a risvegliarsi la Chiesa”, e un
vescovo protestante parlava del “secolo della Chiesa”. Veniva ritrovato, soprattutto,
il concetto, che era previsto anche dal Vaticano I, del Corpo Mistico di Cristo. Si
voleva dire e capire che la Chiesa non è un’organizzazione, qualcosa di strutturale,
giuridico, istituzionale - anche questo -, ma è un organismo, una realtà vitale, che
entra nella mia anima, così che io stesso, proprio con la mia anima credente, sono
elemento costruttivo della Chiesa come tale. In questo senso, Pio XII aveva scritto
l’Enciclica Mystici Corporis Christi, come un passo verso un completamento dell’ecclesiologia
del Vaticano I.
Direi che la discussione teologica degli anni ’30-’40, anche
’20, era completamente sotto questo segno della parola “Mystici Corporis”. Fu una
scoperta che ha creato tanta gioia in quel tempo ed anche in questo contesto è cresciuta
la formula: Noi siamo la Chiesa, la Chiesa non è una struttura; noi stessi cristiani,
insieme, siamo tutti il Corpo vivo della Chiesa. E, naturalmente, questo vale nel
senso che noi, il vero “noi” dei credenti, insieme con l’”Io” di Cristo, è la Chiesa;
ognuno di noi, non “un noi”, un gruppo che si dichiara Chiesa. No: questo “noi siamo
Chiesa” esige proprio il mio inserimento nel grande “noi” dei credenti di tutti i
tempi e luoghi. Quindi, la prima idea: completare l’ecclesiologia in modo teologico,
ma proseguendo anche in modo strutturale, cioè: accanto alla successione di Pietro,
alla sua funzione unica, definire meglio anche la funzione dei Vescovi, del Corpo
episcopale. E, per fare questo, è stata trovata la parola “collegialità”, molto discussa,
con discussioni accanite, direi, anche un po’ esagerate. Ma era la parola - forse
ce ne sarebbe anche un’altra, ma serviva questa - per esprimere che i Vescovi, insieme,
sono la continuazione dei Dodici, del Corpo degli Apostoli. Abbiamo detto: solo un
Vescovo, quello di Roma, è successore di un determinato Apostolo, di Pietro. Tutti
gli altri diventano successori degli Apostoli entrando nel Corpo che continua il Corpo
degli Apostoli. Così proprio il Corpo dei Vescovi, il collegio, è la continuazione
del Corpo dei Dodici, ed ha così la sua necessità, la sua funzione, i suoi diritti
e doveri. Appariva a molti come una lotta per il potere, e forse qualcuno anche ha
pensato al suo potere, ma sostanzialmente non si trattava di potere, ma della complementarietà
dei fattori e della completezza del Corpo della Chiesa con i Vescovi, successori degli
Apostoli, come elementi portanti; ed ognuno di loro è elemento portante della Chiesa,
insieme con questo grande Corpo.
Questi erano, diciamo, i due elementi fondamentali
e, nella ricerca di una visione teologica completa dell’ecclesiologia, nel frattempo,
dopo gli anni ’40, negli anni ’50, era già nata un po’ di critica nel concetto di
Corpo di Cristo: “mistico” sarebbe troppo spirituale, troppo esclusivo; era stato
messo in gioco allora il concetto di “Popolo di Dio”. E il Concilio, giustamente,
ha accettato questo elemento, che nei Padri è considerato come espressione della continuità
tra Antico e Nuovo Testamento. Nel testo del Nuovo Testamento, la parola “Laos tou
Theou”, corrispondente ai testi dell’Antico Testamento, significa – mi sembra con
solo due eccezioni – l’antico Popolo di Dio, gli ebrei che, tra i popoli, “goim”,
del mondo, sono “il” Popolo di Dio. E gli altri, noi pagani, non siamo di per sé il
Popolo di Dio, diventiamo figli di Abramo, e quindi Popolo di Dio entrando in comunione
con il Cristo, che è l’unico seme di Abramo. Ed entrando in comunione con Lui, essendo
uno con Lui, siamo anche noi Popolo di Dio. Cioè: il concetto “Popolo di Dio” implica
continuità dei Testamenti, continuità della storia di Dio con il mondo, con gli uomini,
ma implica anche l’elemento cristologico. Solo tramite la cristologia diveniamo Popolo
di Dio e così si combinano i due concetti. Ed il Concilio ha deciso di creare una
costruzione trinitaria dell’ecclesiologia: Popolo di Dio Padre, Corpo di Cristo, Tempio
dello Spirito Santo.
Ma solo dopo il Concilio è stato messo in luce un elemento
che si trova un po’ nascosto, anche nel Concilio stesso, e cioè: il nesso tra Popolo
di Dio e Corpo di Cristo, è proprio la comunione con Cristo nell’unione eucaristica.
Qui diventiamo Corpo di Cristo; cioè la relazione tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo
crea una nuova realtà: la comunione. E dopo il Concilio è stato scoperto, direi, come
il Concilio, in realtà, abbia trovato, abbia guidato a questo concetto: la comunione
come concetto centrale. Direi che, filologicamente, nel Concilio esso non è ancora
totalmente maturo, ma è frutto del Concilio che il concetto di comunione sia diventato
sempre più l’espressione dell’essenza della Chiesa, comunione nelle diverse dimensioni:
comunione con il Dio Trinitario - che è Egli stesso comunione tra Padre, Figlio e
Spirito Santo -, comunione sacramentale, comunione concreta nell’episcopato e nella
vita della Chiesa.
Ancora più conflittuale era il problema della Rivelazione.
Qui si trattava della relazione tra Scrittura e Tradizione, e qui erano interessati
soprattutto gli esegeti per una maggiore libertà; essi si sentivano un po’ – diciamo
– in una situazione di inferiorità nei confronti dei protestanti, che facevano le
grandi scoperte, mentre i cattolici si sentivano un po’ “handicappati” dalla necessità
di sottomettersi al Magistero. Qui, quindi, era in gioco una lotta anche molto concreta:
quale libertà hanno gli esegeti? Come si legge bene la Scrittura? Che cosa vuol dire
Tradizione? Era una battaglia pluridimensionale che adesso non posso mostrare, ma
importante è che certamente la Scrittura è la Parola di Dio e la Chiesa sta sotto
la Scrittura, obbedisce alla Parola di Dio, e non sta al di sopra della Scrittura.
E tuttavia, la Scrittura è Scrittura soltanto perché c’è la Chiesa viva, il suo soggetto
vivo; senza il soggetto vivo della Chiesa, la Scrittura è solo un libro e apre, si
apre a diverse interpretazioni e non dà un’ultima chiarezza.
Qui, la battaglia
- come ho detto - era difficile, e fu decisivo un intervento di Papa Paolo VI. Questo
intervento mostra tutta la delicatezza del padre, la sua responsabilità per l’andamento
del Concilio, ma anche il suo grande rispetto per il Concilio. Era nata l’idea che
la Scrittura è completa, vi si trova tutto; quindi non si ha bisogno della Tradizione,
e perciò il Magistero non ha niente da dire. Allora, il Papa ha trasmesso al Concilio
mi sembra 14 formule di una frase da inserire nel testo sulla Rivelazione e ci dava,
dava ai Padri, la libertà di scegliere una delle 14 formule, ma disse: una deve essere
scelta, per rendere completo il testo. Io mi ricordo, più o meno, della formula “non
omnis certitudo de veritatibus fidei potest sumi ex Sacra Scriptura”, cioè la certezza
della Chiesa sulla fede non nasce soltanto da un libro isolato, ma ha bisogno del
soggetto Chiesa illuminato, portato dallo Spirito Santo. Solo così poi la Scrittura
parla ed ha tutta la sua autorevolezza. Questa frase che abbiamo scelto nella Commissione
dottrinale, una delle 14 formule, è decisiva, direi, per mostrare l’indispensabilità,
la necessità della Chiesa, e così capire che cosa vuol dire Tradizione, il Corpo vivo
nel quale vive dagli inizi questa Parola e dal quale riceve la sua luce, nel quale
è nata. Già il fatto del Canone è un fatto ecclesiale: che questi scritti siano la
Scrittura risulta dall’illuminazione della Chiesa, che ha trovato in sé questo Canone
della Scrittura; ha trovato, non creato, e sempre e solo in questa comunione della
Chiesa viva si può anche realmente capire, leggere la Scrittura come Parola di Dio,
come Parola che ci guida nella vita e nella morte.
Come ho detto, questa era
una lite abbastanza difficile, ma grazie al Papa e grazie – diciamo – alla luce dello
Spirito Santo, che era presente nel Concilio, è stato creato un documento che è uno
dei più belli e anche innovativi di tutto il Concilio, e che deve essere ancora molto
più studiato. Perché anche oggi l’esegesi tende a leggere la Scrittura fuori dalla
Chiesa, fuori dalla fede, solo nel cosiddetto spirito del metodo storico-critico,
metodo importante, ma mai così da poter dare soluzioni come ultima certezza; solo
se crediamo che queste non sono parole umane, ma sono parole di Dio, e solo se vive
il soggetto vivo al quale ha parlato e parla Dio, possiamo interpretare bene la Sacra
Scrittura. E qui - come ho detto nella prefazione del mio libro su Gesù (cfr vol.
I) - c’è ancora molto da fare per arrivare ad una lettura veramente nello spirito
del Concilio. Qui l’applicazione del Concilio ancora non è completa, ancora è da fare.
E,
infine, l’ecumenismo. Non vorrei entrare adesso in questi problemi, ma era ovvio –
soprattutto dopo le “passioni” dei cristiani nel tempo del nazismo – che i cristiani
potessero trovare l’unità, almeno cercare l’unità, ma era chiaro anche che solo Dio
può dare l’unità. E siamo ancora in questo cammino. Ora, con questi temi, l’”alleanza
renana” – per così dire – aveva fatto il suo lavoro.
La seconda parte del Concilio
è molto più ampia. Appariva, con grande urgenza, il tema: mondo di oggi, epoca moderna,
e Chiesa; e con esso i temi della responsabilità per la costruzione di questo mondo,
della società, responsabilità per il futuro di questo mondo e speranza escatologica,
responsabilità etica del cristiano, dove trova le sue guide; e poi libertà religiosa,
progresso, e relazione con le altre religioni. In questo momento, sono entrate in
discussione realmente tutte le parti del Concilio, non solo l’America, gli Stati Uniti,
con un forte interesse per la libertà religiosa. Nel terzo periodo questi hanno detto
al Papa: Noi non possiamo tornare a casa senza avere, nel nostro bagaglio, una dichiarazione
sulla libertà religiosa votata dal Concilio. Il Papa, tuttavia, ha avuto la fermezza
e la decisione, la pazienza di portare il testo al quarto periodo, per trovare una
maturazione ed un consenso abbastanza completi tra i Padri del Concilio. Dico: non
solo gli americani sono entrati con grande forza nel gioco del Concilio, ma anche
l’America Latina, sapendo bene della miseria del popolo, di un continente cattolico,
e della responsabilità della fede per la situazione di questi uomini. E così anche
l’Africa, l’Asia, hanno visto la necessità del dialogo interreligioso; sono cresciuti
problemi che noi tedeschi – devo dire – all’inizio, non avevamo visto. Non posso adesso
descrivere tutto questo. Il grande documento “Gaudium et spes” ha analizzato molto
bene il problema tra escatologia cristiana e progresso mondano, tra responsabilità
per la società di domani e responsabilità del cristiano davanti all’eternità, e così
ha anche rinnovato l’etica cristiana, le fondamenta. Ma, diciamo inaspettatamente,
è cresciuto, al di fuori di questo grande documento, un documento che rispondeva in
modo più sintetico e più concreto alle sfide del tempo, e cioè la “Nostra aetate”.
Dall’inizio erano presenti i nostri amici ebrei, che hanno detto, soprattutto a noi
tedeschi, ma non solo a noi, che dopo gli avvenimenti tristi di questo secolo nazista,
del decennio nazista, la Chiesa cattolica deve dire una parola sull’Antico Testamento,
sul popolo ebraico. Hanno detto: anche se è chiaro che la Chiesa non è responsabile
della Shoah, erano cristiani, in gran parte, coloro che hanno commesso quei crimini;
dobbiamo approfondire e rinnovare la coscienza cristiana, anche se sappiamo bene che
i veri credenti sempre hanno resistito contro queste cose. E così era chiaro che la
relazione con il mondo dell’antico Popolo di Dio dovesse essere oggetto di riflessione.
Si capisce anche che i Paesi arabi – i Vescovi dei Paesi arabi – non fossero felici
di questa cosa: temevano un po’ una glorificazione dello Stato di Israele, che non
volevano, naturalmente. Dissero: Bene, un’indicazione veramente teologica sul popolo
ebraico è buona, è necessaria, ma se parlate di questo, parlate anche dell’Islam;
solo così siamo in equilibrio; anche l’Islam è una grande sfida e la Chiesa deve chiarire
anche la sua relazione con l’Islam. Una cosa che noi, in quel momento, non abbiamo
tanto capito, un po’, ma non molto. Oggi sappiamo quanto fosse necessario.
Quando
abbiamo incominciato a lavorare anche sull’Islam, ci hanno detto: Ma ci sono anche
altre religioni del mondo: tutta l’Asia! Pensate al Buddismo, all’Induismo…. E così,
invece di una Dichiarazione inizialmente pensata solo sull’antico Popolo di Dio, si
è creato un testo sul dialogo interreligioso, anticipando quanto solo trent’anni dopo
si è mostrato in tutta la sua intensità e importanza. Non posso entrare adesso in
questo tema, ma se si legge il testo, si vede che è molto denso e preparato veramente
da persone che conoscevano le realtà, e indica brevemente, con poche parole, l’essenziale.
Così anche il fondamento di un dialogo, nella differenza, nella diversità, nella fede
sull’unicità di Cristo, che è uno, e non è possibile, per un credente, pensare che
le religioni siano tutte variazioni di un tema. No, c’è una realtà del Dio vivente
che ha parlato, ed è un Dio, è un Dio incarnato, quindi una Parola di Dio, che è realmente
Parola di Dio. Ma c’è l’esperienza religiosa, con una certa luce umana della creazione,
e quindi è necessario e possibile entrare in dialogo, e così aprirsi l’uno all’altro
e aprire tutti alla pace di Dio, di tutti i suoi figli, di tutta la sua famiglia.
Quindi, questi due documenti, libertà religiosa e “Nostra aetate”, connessi
con “Gaudium et spes” sono una trilogia molto importante, la cui importanza si è mostrata
solo nel corso dei decenni, e ancora stiamo lavorando per capire meglio questo insieme
tra unicità della Rivelazione di Dio, unicità dell’unico Dio incarnato in Cristo,
e la molteplicità delle religioni, con le quali cerchiamo la pace e anche il cuore
aperto per la luce dello Spirito Santo, che illumina e guida a Cristo.
Vorrei
adesso aggiungere ancora un terzo punto: c’era il Concilio dei Padri – il vero Concilio
–, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha
percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. Quindi il Concilio immediatamente
efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri. E mentre
il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, era un Concilio della
fede che cerca l’intellectus, che cerca di comprendersi e cerca di comprendere i segni
di Dio in quel momento, che cerca di rispondere alla sfida di Dio in quel momento
e di trovare nella Parola di Dio la parola per oggi e domani, mentre tutto il Concilio
– come ho detto – si muoveva all’interno della fede, come fides quaerens intellectum,
il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede,
ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica
diversa. Era un’ermeneutica politica: per i media, il Concilio era una lotta politica,
una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero
posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo.
C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi
e poi, tramite la parola “Popolo di Dio”, il potere del popolo, dei laici. C’era questa
triplice questione: il potere del Papa, poi trasferito al potere dei Vescovi e al
potere di tutti, sovranità popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da
approvare, da promulgare, da favorire. E così anche per la liturgia: non interessava
la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili,
una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E sappiamo che c’era una tendenza,
che si fondava anche storicamente, a dire: La sacralità è una cosa pagana, eventualmente
anche dell’Antico Testamento. Nel Nuovo vale solo che Cristo è morto fuori: cioè fuori
dalle porte, cioè nel mondo profano. Sacralità quindi da terminare, profanità anche
del culto: il culto non è culto, ma un atto dell’insieme, della partecipazione comune,
e così anche partecipazione come attività. Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea
del Concilio, sono state virulente nella prassi dell’applicazione della Riforma liturgica;
esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave,
della fede. E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro,
storico, da trattare storicamente e nient’altro, e così via.
Sappiamo come
questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante,
più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie:
seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto
difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del
Concilio reale. Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza
sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento
della Chiesa. Mi sembra che, 50 anni dopo il Concilio, vediamo come questo Concilio
virtuale si rompa, si perda, e appare il vero Concilio con tutta la sua forza spirituale.
Ed è nostro compito, proprio in questo Anno della fede, cominciando da questo Anno
della fede, lavorare perché il vero Concilio, con la sua forza dello Spirito Santo,
si realizzi e sia realmente rinnovata la Chiesa. Speriamo che il Signore ci aiuti.
Io, ritirato con la mia preghiera, sarò sempre con voi, e insieme andiamo avanti con
il Signore, nella certezza: Vince il Signore! Grazie!