Cinema: al festival di Berlino i film di Szumowska, Seidl e Van Sant
Nevica sul 63° Festival di Berlino. Sotto un cielo cupo arrivano i primi titoli e
le prime delusioni del concorso internazionale. La competizione si è infatti aperta
con un film polacco, “In the Name of” di Malgoska Szumowska, che racconta i turbamenti
di un giovane prete incaricato di gestire un centro di recupero per giovani con problemi
comportamentali, reduci da anni di riformatorio. Ciò che rende particolarmente deludente
questo film è che la cineasta sa filmare e per i nove decimi della sua durata sa strutturare
il racconto, con bellissime sequenze che trasmettono tutta l’energia selvaggia della
gioventù o la tensione del giovane sacerdote nella sua lotta interiore fra le tentazioni
della carne e la purezza della fede. Il film cade purtroppo nel finale quando la cineasta
non ha più fiducia nel potere dell’ellissi e invece di lasciare lo spettatore di fronte
a una domanda insolubile, prende la strada più prevedibile e trasforma “In the Name
of” nel più convenzionale dei gay film. Non ci convince neppure “Paradise: Hope” di
Ulrich Seidl, terzo atto di una trilogia sparpagliata fra i Festival di Cannes, Venezia
e Berlino. Se “Paradise: Love” e “Paradise: Faith” ci erano sembrati delle complesse
testimonianze di un disperato e confuso bisogno d’amore ma anche dei gesti cinematografici
di grande vigore, qui, in questa storia di seduzione fra un’adolescente sovrappeso
e un maturo nutrizionista, la stanchezza prende il sopravvento e il dispositivo scelto
dal regista austriaco mostra tutte le sue smagliature. Meglio si comporta Gus Van
Sant, seppure alle prese con un film su commissione come “Promised Land”. Nato dalla
volontà militante del suo attore protagonista, Matt Damon, in favore della lotta delle
popolazioni contro gli interessi delle multinazionali che vogliono estrarre il gas
scisto a scapito di devastanti inquinamenti ambientali, il film racconta la più classica
della parabole di conversione, seguendo il percorso di un manager ambizioso, diviso
fra gli interessi dell’azienda e la salute della gente comune. Film di sceneggiatura,
ben diretto e interpretato, “Promised Land” non avrà nessun guizzo creativo (come
altre opere del regista americano) ma almeno ci consegna un film che ci fa sentire
dalla parte giusta. Il meglio della giornata viene tuttavia da un film documentario,
“La maison de la radio” di Nicolas Philibert, già celebre autore di “Essere e avere”.
Il cineasta, da sempre attento ai dettagli che possano rivelare la presenza del sacro
nelle prosaiche vicende umane, ha passato sei mesi all’interno del complesso architettonico
che ospita la radio francese. Vagabondando da una sala di registrazione a un’altra,
dalle voci che raccontano i fatti quotidiani a quelle che riflettono sul presente
e sulla storia a quelle che ricreano un universo attraverso la sottile modulazione
dei suoni a quelle che accompagnano la musica, Philibert riesce ancora una volta nella
più difficile impresa di un artista, filmare il visibile per captare l’invisibile.
(Da Berlino, Luciano Barisone)
Bollettino
del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LVII no. 40