Incontro delle Chiese cristiane europee: intervista con i cardinali Erdő e Bagnasco
Si sono chiusi ieri a Varsavia, in Polonia, i lavori del Comitato Congiunto della
Conferenza delle Chiese Europee (Kek) – che riunisce le Chiese e le comunità ortodosse,
protestanti e anglicane del Vecchio continente - e del Consiglio delle Conferenze
Episcopali cattoliche Europee (Ccee). Al centro dei lavori, il tema “Fede e religiosità
in un’Europa che cambia. I nuovi movimenti cristiani in Europa: sfide o opportunità?”.
“I partecipanti - informa un comunicato finale - hanno esaminato la sfida posta alle
Chiese cristiane dai gruppi e movimenti religiosi che si collocano al di fuori della
corrente maggioritaria delle Chiese cristiane”, ribadendo tanto la necessità di una
nuova evangelizzazione quanto del rinnovamento della vita delle Chiese. “Particolare
preoccupazione” è stata espressa per “quei migranti che sono venuti in Europa, ma
non si sentono a loro agio nella corrente maggioritaria delle Chiese europee e si
rifugiano in uno di questi nuovi movimenti religiosi”. Tra gli interventi anche quello
del cardinale Angelo Bagnasco, vice-presidente del Ccee, che ha parlato degli
interrogativi che pone il fenomeno dei nuovi movimenti religiosi. Ascoltiamo la sua
riflessione:
R. – Ci deve
far riflettere sul perché ci sono fuoriuscite di cattolici, o comunque di cristiani,
verso questi nuovi movimenti. Quindi, il bisogno di una maggiore accoglienza, di un’appartenenza
più avvertita, di una dimensione anche più gioiosa e partecipata, sicuramente sono
elementi, sono fattori su cui dobbiamo riflettere, perché sono esigenze reali della
persona umana. Evidentemente, le nostre comunità devono anche un po’ rimotivare e
riflettere su se stesse. Questo, in prima battuta. Un secondo motivo che abbiamo analizzato
è che a volte questi nuovi movimenti fanno delle promesse facili, non solo sotto il
profilo strettamente spirituale, ma anche sotto il profilo materiale e fisico del
successo nella vita: queste sono promesse che poi non si adempiono e che deludono.
Tant’è vero che al recente Sinodo sulla nuova evangelizzazione, molti vescovi dell’Africa,
dell’Asia e dell’America Latina, dicevano: sì, questo fenomeno del passaggio dalla
Chiesa cattolica ai nuovi movimenti esiste, però c’è anche il fenomeno contrario,
un fenomeno di ritorno, quindi, proprio perché la gente vede che le promesse di benessere
materiale, di superamento delle varie povertà e via discorrendo non si realizzano,
come è ovvio. Un terzo elemento, a mio parere, è una “teologia facile”, o se vogliamo
un “messaggio religioso facile” da parte di questi movimenti che non mi pare chiedano
un notevole impegno di approfondimento teologico, dottrinale. Puntano molto di più
sull’esperienza dell’essere insieme e quindi sull’emotività molto forte dei soggetti,
che fa parte dell’uomo ma che non è tutto l’uomo. Questo è un elemento che, evidentemente,
le Chiese storiche non possono rincorrere: puntare sull’emotività e tralasciare l’impegno
quotidiano … L’ultimo elemento che abbiamo messo in rilevo, è che spesso i nuovi movimenti
sono un po’ deboli - se non addirittura assenti - sul piano della dimensione sociale:
il messaggio, l’esperienza sono molto centrati sul singolo, sulla persona, se pure
insieme, per creare un grande pathos collettivo, ma quello che riguarda la trasformazione
della società - rispetto alla giustizia, alla pace e via discorrendo – sembra affidato
più al singolo, ma in termini estremamente personalistici. Quindi, sono elementi su
cui bisogna riflettere e su cui stiamo riflettendo, per fare tesoro della parte che
ci può riguardare direttamente e per valutare serenamente anche aspetti che sono certamente
limitati.
D. – Nell’Anno della Fede, questi nuovi movimenti ci stanno dicendo
che c’è una forte “domanda di Dio”. Come la Chiesa italiana, le Chiese storiche devono
rispondere a questa “domanda di Dio”?
R. – Intanto, con una catechesi più profonda,
più articolata e fedele, che però sia sempre congiunta con un’esperienza globale della
vita cristiana, di cui la catechesi è evidentemente un elemento. Poi, c’è la vita
sacramentale, la vita di preghiera personale, la liturgia, la testimonianza della
carità, la comunità cristiana, ecclesiale; quindi, l’esperienza è un percorso e non
è soltanto un fattore. Certamente, il fattore della catechesi è un fattore importante.
Si parla di “analfabetismo religioso” e l’analfabetismo si colma attraverso l’approfondimento
dottrinale. Una seconda cosa - risuonata anche nel Sinodo – è una maggiore attenzione
alla pietà popolare, alla devozione popolare, che qualche volta abbiamo un po’ guardato
come una forma di serie B della religiosità, ma che fa parte dell’umano. La devozione
è, certo, da purificare laddove deve essere purificata, anche da sostanziare, ma assolutamente
da valorizzare.
Durante l’incontro il cardinale Péter Erdő, arcivescovo
di Esztergom-Budapest e presidente del Ccee, ha parlato dei pericoli, anche di carattere
politico, che la Chiesa in Europa oggi corre, con il rischio di essere strumentalizzata
o emarginata. Questa la sua analisi:
R. – E’ sempre
stato così! Da un lato ci sono, e c’erano anche prima, correnti in Europa che vorrebbero
eliminare la religione come tale, almeno dalla vita pubblica se non dall’intera società.
Una forma piuttosto forte di questo tentativo è stato il comunismo: nei nostri Paesi
ne abbiamo fatto un’esperienza abbastanza dettagliata. Però, ci sono anche tentativi
diversi: c’è quello di far riferimento ad una certa tradizione – tradizione che oggi
forse non è più così forte nei singoli Paesi europei – che vorrebbe servirsi dell’aiuto
delle Chiese restringendo però la loro attività a manifestazioni che potrebbero sembrare
politicamente corrette. E’ difficile operare solamente nel campo assistenziale o sociale
senza trasmettere le verità fondamentali della nostra fede! Quindi, la vita della
Chiesa è complessa … Il contenuto della nostra fede non è a nostra disposizione: noi
non possiamo inventare la nostra fede sempre di nuovo, a seconda dei desideri dell’ambiente;
ma certamente possiamo riflettere sulla realtà intorno a noi in base alla nostra eredità
cristiana: non siamo, infatti, una religione puramente filosofica e neppure una religione
di sole emozioni, ma siamo una religione rivelata che necessariamente deve far riferimento
al fatto storico della Rivelazione – nel nostro caso, alla Persona di Gesù Cristo.
D.
– La sua esperienza di vita in Ungheria, come può aiutare a comprendere quale sia
il senso della collaborazione ecumenica?
R. – Anche in Ungheria, il movimento
ecumenico ha un passato ricco di esperienze. Certo, negli ultimi due anni in tutta
Europa si sono manifestati fenomeni che parlano di una certa chiusura da parte di
alcune Chiese o comunità. Eppure, la tendenza generale è rimasta ferma: miglioramento
delle relazioni umane, presa di coscienza della nostra fratellanza nella fede attraverso
la Persona di Gesù Cristo, ma anche il rispetto verso le differenze. Sarebbe infatti
un ecumenismo troppo facile, negare le differenze teologiche che ci sono tra di noi,
soltanto per sentirci bene insieme. Noi dobbiamo sentirci sempre meglio, insieme,
ma dobbiamo anche lavorare insieme in quei campi in cui è possibile. Parlo per esempio
della testimonianza nel campo sociale, nel campo morale: una voce cristiana che la
società molto spesso aspetta. Questi sicuramente sono ambiti di solidarietà, e in
questi abbiamo esperienze molto positive, soprattutto con le Chiese ortodosse, perché
la loro visione teologica sull’essere umano, sulla famiglia, sul matrimonio ma anche
sulla vita è uguale alla visione cattolica, e quindi è anche più facile formulare
una posizione comune.