Giornata della memoria. Roberto Piperno: "Salvo grazie all'accoglienza delle Suore
Bethlemite"
Scampato al rastrellamento nel ghetto ebraico di Roma del 16 ottobre 1943, Roberto
Piperno trovò un accoglienza premurosa tra le mura del convento delle suore Bethlemite
di piazza Sabazio a Roma fino alla liberazione. In occasione della Giornata della
memoria che ricorre questa domenica, Paolo Ondarza ha raccolto la sua testimonianza:
R. – Mio padre
aveva capito che la situazione era molto difficile, quindi ce ne andammo da casa:
andammo a casa di suoi amici. Ad un certo punto, visto che la situazione non sembrava
sicura, si cercò un’altra soluzione. Ci spostammo: mia madre, mia sorella, mia nonna
materna e quella paterna ed io, che ero un bambino di cinque anni, ci spostammo in
un monastero che non era lontano da dove abitavano questi amici; a casa loro, invece,
rimasero mio padre e mio nonno. Io passai sei mesi in questo monastero delle suore
Bethlemite di piazza Sabazio. Naturalmente, noi non eravamo neanche dichiarati come
ebrei: soltanto la madre superiora era a conoscenza di questa nostra identità ebraica.
Per fortuna, questo amico di mio padre riuscì a procurarci carte di identità false,
per cui io non mi chiamavo più Roberto Piperno, ma Roberto Pistolesi ed ero un napoletano
venuto a Roma con la famiglia …
D. – Cosa significava per voi essere costretti,
da un lato, a rinunciare al vostro nome e quindi alla vostra identità, ma all’interno
del convento essere comunque accolti e protetti?
R. – Dopo tanti anni il ricordo
delle suore è dolce: erano così gentili con noi, specialmente con me. Dovetti imparare
le preghiere cattoliche, andavo in chiesa tutte le domeniche con mia madre e le mie
nonne, dovevamo farci vedere come se fossimo cattolici. Quindi, c’era uno sdoppiamento
della personalità. Però, questo non ci pesava perché le suore con noi si comportavano
in maniera splendida … Ce n’era una, in particolare, suor Rita – adesso è morta –
che portava me e mia sorella, più grande di me di tre anni, nel giardinetto del
convento …
D. – Ci furono mai dei controlli nel convento?
R. – Per fortuna,
non ci fu mai nessun controllo effettivo. So tra l’altro che le suore, Bethlemite
avevano ospitato anche altri ebrei in altri luoghi del monastero, ma questo io l’ho
scoperto soltanto molto dopo. Le suore ci avevano permesso di sopravvivere e di essere
trattati in maniera umana. Loro avevano anche un istituto scolastico di scuola elementare:
per qualche giorno, mia sorella ed io andammo là; poi, siccome avrebbe potuto essere
pericoloso perché avremmo potuto essere identificati, mia madre non ci permise più
di andare a scuola.
D. – Lei ricorda l’umanità e l’affetto di suor Rita, in
particolare, che addirittura le consentì di uscire fuori, un giorno: fuori dal convento
…
R. – Esatto. Sì, fu un episodio per me indimenticabile, perché venne da mia
madre e le disse: “Senta, io devo andare a fare degli acquisti: Roberto può venire
con me, così fa due passi?”. E così uscii: me lo ricorderò sempre, perché è stata
l’unica volta che sono uscito.
D. – In quegli anni di paura, pure in una condizione
comunque di nascondimento, questi singoli episodi le consentivano comunque di ricevere
calore umano …
R. - … sì, sì, da tutte le suore!
D. – Sorrisi e calore
umano di cui un bambino, in particolare, ha bisogno …
R. - … certo, a cinque
anni … a cinque anni … tanto più dal momento che tua madre ti dice continuamente:
ricordati che tu non ti chiami Roberto Piperno ma Roberto Pistolesi, ricordati che
devi stare zitto, ricordati che non devi parlare con nessuno … Sono cose che poi lasciano
una traccia per tutto il resto della tua esistenza!
D. – Suo padre e suo nonno,
poi, furono trasferiti a San Giovanni …
R. – Andammo tutti, anche noi: ci trasferimmo
tutti a San Giovanni, perché mio padre voleva in qualche modo ricostituire la famiglia,
e sembrava che a San Giovanni avremmo potuto farlo. Arrivammo là, ma proprio nel giorno
in cui arrivammo, la notte precedente i nazisti erano entrati in San Paolo e avevano
portato via tanta gente, specialmente politici che si trovavano là. E quindi, il giorno
dopo per timore tornammo tutti indietro: noi tornammo dalle Suore Bethlemite e mio
padre e mio nonno tornarono dai loro amici.
D. – La sua condizione di sopravvissuto
le permette di raccontare, di tramandare la memoria di quanto accaduto, ma anche –
nello specifico – di raccontare che il calore umano ha continuato ad esserci
in quegli anni, nonostante tutto …
R. – Esatto. L’esperienza con queste suore
ha significato proprio questo: la loro l’umanità contro le persecuzioni naziste.