Siria. Assad accusa la Turchia: “accoglie i terroristi”. Ban Ki Moon: “Poche speranze
per una risoluzione della guerra”
“Non vedo molte speranze per una risoluzione del conflitto in Siria”. Così il segretario
generale dell’Onu, Ban Ki Moon, che ha parlato di “milioni di persone in lotta per
la sopravvivenza”. Intanto proseguono i combattimenti, con decine di morti in tutto
il Paese. E si riaccendono le polemiche con la Turchia. Il servizio è di Marina
Calculli:
Secondo il presidente
siriano Bashar al-Assad “la Turchia è direttamente responsabile del massacro che sta
avvenendo in Siria”. Non usa mezzi termini il raìs all’indomani dell’arrivo di nuovi
missili Patriot in Turchia, chiesti da Ankara alla NATO proprio in funzione di difesa
anti-siriana. Bashar ha poi ribadito che in Siria “non c’è una rivoluzione e ciò che
accade non ha a che fare con la primavera araba. Si tratta piuttosto di una guerra
regionale e internazionale contro terroristi inviati dai paesi vicini che vogliono
distruggere la Siria”. Sempre più debole strategicamente inoltre, il regime ha creato
nuove milizie lealiste, parallele all’esercito. Si tratta di battaglioni di civili,
in azione in realtà da tempo, ma ora formalizzati nell’ “Esercito di difesa nazionale”.
Tra queste ci sono anche squadre femminili, donne che da 18 a 50 anni hanno imbracciato
le armi, dopo aver giurato fedeltà a Bashar. Il regime però – stando a quanto dichiarato
dagli stessi ribelli ad un quotidiano turco – non può usare armi chimiche senza l’ok
della Russia. C’è un accordo vincolante tra i due paesi”. La guerra civile, tuttavia,
si incancrenisce sempre più. Da New York Ban Ki Moon ha detto di “non avere speranze
in una risoluzione immediata del conflitto”.
E intanto resta gravissima l’emergenza
umanitaria, oltre 12 mila profughi sono ammassati in queste ore al confine con la
Giordania. Cecilia Seppia ha raccolto la testimonianza della dottoressa Fausta
Micheletta, di Medici senza frontiere, appena rientrata dalla Siria:
R. – Per quello
che ho visto, e che mi ha scioccato sia da un punto di vista umano che professionale,
è che la maggior parte dei feriti che ho assistito erano feriti civili, quindi vittime
di bombardamenti sulle città e bisognosi di un’assistenza sanitaria che in questo
momento è difficile da avere nel Paese.
D. – Quando i feriti arrivano da voi
in che condizioni sono?
R. – In genere i feriti, nella mia esperienza, arrivano
tutti insieme. Nel senso che il primo bombardamento è quello che crea più vittime,
perché trova la popolazione per strada, perché la trova “impreparata”, anche se sono
preparati perché sono mesi che vengono bombardati. Quindi, in genere il flusso è l’arrivo
da 4 a 12-15 feriti, tutti insieme. Quello che mi ha colpito è che in genere arrivano
famiglie intere che vengono colpite, perché magari durante il corso di un bombardamento
crolla un tetto del palazzo e quindi hanno ferite da trauma al chiuso, oppure perché
sono per strada e vengono colpite dai frammenti di bomba o di mortaio che erano sul
suolo.
D. – Tra gli altri problemi che in questo momento la popolazione sta
affrontando, c’è l’emergenza freddo, la fame… Insomma, i bisogni sanitari stanno crescendo:
voi come li state fronteggiando?
R. – Da un punto di vista sanitario, oltre
ad essere presenti in ospedali del nord, nordest della Siria, offriamo un supporto
logistico. Per esempio, l’ospedale nel quale ho lavorato io forniva supporto logistico
ai piccoli ospedali da campo gestiti dal personale sanitario locale e nelle città
più vicine al fronte. Supporto logistico vuol dire invio di materiale medico: dalle
garze, ai farmaci, a tutto quello che è necessario per stabilizzare il paziente e
permettere il trasferimento verso il nostro ospedale. O anche un supporto che può
essere legato alla fornitura di coperte perché, come accennava, è particolarmente
freddo e oltre a essere freddo non c’è elettricità e non ci sono riscaldamenti.
D.
– Tra l’altro voi lavorate solo in zone controllate dai ribelli e ci sono molte persone
che non riuscite a raggiungere…
R. – Questo ci tengo a sottolinearlo, nel senso
che Msf lavora nel nord del Paese, perché nonostante fin dall’inizio sia stata chiesta
l’autorizzazione al governo siriano per una nostra presenza ufficiale nel Paese, l’autorizzazione
non è stata mai concessa. Quindi, siamo in grado di assistere la popolazione civile
soltanto nelle aree controllate dai ribelli e purtroppo non ancora nelle aree controllate
dai governativi, dove pure sicuramente c’è bisogno di assistenza sanitaria alla popolazione.
D.
– Qual è la percezione che ha la gente nei confronti della comunità internazionale,
ma anche delle ong come Msf, che operano sul terreno?
R. – Nell’immaginario
della popolazione locale, c’è paura nei confronti della presenza di un ospedale. Per
esempio, nella comunità che ospita il nostro ospedale è vietato fare fotografie perché
l’ospedale viene considerato un target, ovvero un obiettivo dei bombardamenti e quindi
nelle zone di fronte, la maggior parte degli ospedali da campo sono nei sotterranei
dei palazzi, per essere sicuri nel caso di un bombardamento, e quindi alla difficoltà
di una guerra si aggiunge anche la paura da parte della popolazione civile di essere
accolta e curata all’interno di un ospedale. Sicuramente, c’è bisogno che tutta la
comunità internazionale intensifichi il bisogno sia della popolazione all’interno
della Siria, sia della popolazione che dalla Siria è scappata.