2013-01-22 07:59:28

Israele oggi al voto. Favorito il partito del premier Netanyahu


Dopo una campagna elettorale incentrata sopratutto su temi sociali ed economici, oggi Israele va al voto. Oltre 5 milioni e 600 mila gli aventi diritto, che già stanno affollando i circa 10 mila seggi, che rimarranno aperti sino alle ore 22. Alcune migliaia i candidati presenti in 34 partiti. A contendersi i 120 seggi della Knesset, solo le liste che supereranno la soglia di sbarramento del 2%. Sentiamo Graziano Motta:RealAudioMP3

Una soglia che, come nel passato, sarà superata certamente da una dozzina di liste, soprattutto da quella del partito di centro-destra Likud, guidato dal premier uscente Benjamin Netanyahu, data più che vincente da tutte le previsioni e alleata della destra oltranzista Israel Beitenu, del russofono Avidgor Lieberman, dimessosi a dicembre da ministro degli Esteri per problemi giudiziari: puntano ad ottenere più dei 42 seggi di cui insieme disponevano nell’ultima legislatura, sostenendo che la scelta è tra un Israele debole e diviso e uno forte e unito. Ma per governare avranno bisogno ancora del sostegno dei partiti confessionali Shas e Torah Unita e forse di altre liste minori. Una di queste, Bait Yehudi, focolare ebraico guidato dall’uomo in affari di Naftali Bennet, pupillo dei coloni, potrebbe passare da tre a 15 seggi. In rimonta i laburisti. Punteranno sempre su un elettorato stabile i partiti della minoranza araba, tentata però stavolta dall’astensione.

E, sui possibili esiti di queste combattute elezioni legislative israeliane, Benedetta Capelli ha intervistato Maria Grazia Enardu, docente di Storia delle Relazioni Internazionali all’Università di Firenze:RealAudioMP3

R. – La vittoria di Netanyahu è scontata. Quello che non è scontato è che sarà una piena vittoria, cioè che il Likud assieme alla lista di Israel Beitenu raggiungano e superino la somma dei due partiti, al momento. Questo non è scontato. Inoltre, va visto come sarà il sorpasso a destra di un nuovo partito che da anni è sulla scena, ma che ora è completamente rinnovato, cioè Bait Yehudi, guidato da un uomo giovane, energico, di grande carisma che è Naftali Bennet e che ha condotto una campagna elettorale molto aggressiva. In questo momento, il partitino di Bennet ha tre seggi: se li moltiplicasse, sarebbe la misura della sconfitta di Netanyahu.

D. – Secondo lei, Bennet sarà il successore di Netanyahu e nello stesso tempo, con la sua battaglia per la questione dei territori quanto consenso ha raccolto?

R. – Bennet è molto abile ed è molto intelligente. In questo momento, lui sta cavalcando l’onda a spese della destra di Likud-Netanyahu. Però, è anche capacissimo di spostarsi e al centro e successivamente di riprendersi il Likud. Potrebbe domani essere il nuovo leader di Israele, con idee anche un pochino diverse da quelle che dice di avere ora.

D. – Secondo lei, però, le idee che invece sta proponendo in questa fase, non possono preoccupare una parte dell’opinione pubblica, ma anche un po’ la comunità internazionale?

R. – Su questo non c’è dubbio, perché Bennet in questo momento ha detto una cosa anche piuttosto grave, e cioè che non c’è spazio per uno Stato palestinese dentro Israele. Però è anche vero che nella storia della destra di Israele ci sono stati uomini che sono partiti con dichiarazioni altrettanto dure e che poi hanno fatto cose diverse. Per certi versi, l’eccezione è Netanyahu che, a parole, ha detto che avrebbe voluto riprendere il negoziato di pace se Abu Mazen fosse stato credibile, poi nei fatti ha smantellato questa possibilità. Bennet è giovane e spregiudicato: questo, paradossalmente, può essere domani un elemento di rinnovamento.

D. – Quali sono, secondo lei, i temi più a cuore dell’opinione pubblica israeliana? Lo Stato ebraico è sempre alle prese con una crisi economica importante e poi c’è anche lo spettro dell’Iran…

R. – Ecco, di Iran in questa campagna elettorale si è parlato molto meno di quanto non avesse fatto Netanyahu nei mesi immediatamente precedenti. Che ci sia una crisi economica più o meno nascosta, non ci sono dubbi. E' anche vero che lo sforzo di difesa di Israele costa una parte di bilancio impressionante, come anche il sostegno dato agli insediamenti. Quindi, questa crisi economica va affrontata: finora Netanyahu l’ha letteralmente messa sotto il tappeto. L’opinione pubblica, inoltre, è preoccupata dal problema della sicurezza, cioè della possibilità di avere uno Stato palestinese che non riesca in qualche modo a controllare.

D. – In questo voto, secondo lei, c’entra – o c’entrerà – la crisi che ci siamo lasciati alle spalle nella Striscia di Gaza?

R. – La Striscia di Gaza è ormai praticamente tagliata fuori dal contesto israeliano, se non per quanto riguarda la sicurezza, i razzi che piovono sul Sud di Israele e così via. Un avvio del negoziato di pace dev’essere fatto con tutte e due le componenti: Hamas è al momento apparentemente lontana, Abu Mazen è al momento terribilmente stanco di tentativi andati a vuoto. Il nuovo governo, che sarà sicuramente a guida Netanyahu, potrebbe presentare tesi ancora più oltranziste, per di più durante il periodo della seconda presidenza Obama. Questo non smuoverà gli americani: gli americani non sembrano avere alcuna intenzione di fare un serio sforzo di negoziato, perché sanno che non avrebbe risultati a breve. Però, un governo Netanyahu duro che inglobi eventualmente anche ministri di Naftali Bennet, sarebbe oggetto di una politica abbastanza rigida da parte dell’Europa e di altri Paesi, che intendono spiegare a Israele che va ripreso un percorso di un vero negoziato.

D. – Come potrà uscire la sinistra dal voto di domani?

R. – La sinistra in Israele si misurerà guardando letteralmente i seggi di "Meretz", che è l’unico partito di sinistra rimasto. In questo momento ha tre seggi, se ne avrà qualcuno in più la sinistra si riprenderà; se non li avrà, rimarrà allo stato attuale, cioè molto piccolo. I laburisti sono stati più volti definiti dalla leader Shelly Yacimovich un partito di centro: i laburisti non sono più considerabili “sinistra”, se non nel senso più generale del termine, e comunque non ideologico.







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