2013-01-16 15:50:33

Essere rifugiati nella crisi: nasce "RE-Lab" per aiutare nella costruzione d'impresa


Trovare un lavoro, un alloggio, in un momento di crisi come quello che si sta vivendo in Italia, è impossibile per chiunque, ancor di più per gli stranieri e, tra loro, soprattutto per i rifugiati. La maggior parte è disoccupata, gli altri sono impiegati in lavori che non riflettono l’esperienza pregressa o il titolo di studio. Il progetto "RE-Lab" intende supportare queste persone aiutandole in progetti di micro-impresa, tenendo anche conto che, in controtendenza con gli altri dati, la partecipazione di stranieri ad attività indipendenti quest’anno è cresciuta: oltre il 57% dei titolari di imprese in Italia sono infatti stranieri (Dossier Statistico Immigrazione 2012 Caritas Migrantes). Francesca Sabatinelli ha intervistato Giampietro Pizzo, presidente di Microfinanza e sviluppo, associazione partner del progetto "RE-Lab", promosso da Ilo, Cir, Micro Progress Onlus, Comune di Venezia e diretto a titolari di protezione internazionale: RealAudioMP3

R. – I rifugiati, titolari di protezione internazionale, sono doppiamente in difficoltà dal punto di vista della possibilità di costruire un progetto non solo di lavoro, ma di vita. Oggi, la condizione economica e sociale di crisi rende estremamente difficile l’accesso al mercato del lavoro. Sono in difficoltà perché, all’interno delle stesse comunità straniere, queste persone si ritrovano spesso prive di un capitale sociale, di una struttura di relazioni e di accompagnamento nel nuovo luogo in cui vivono e dove possono cercare una forma di autonomia. Allora, lavorare sulla capacità di costruire un percorso di autonomia e di affermazione individuale diventa fondamentale. L’idea è, in un tempo relativamente breve, di identificare queste persone, formarle, accompagnarle, finanziarle, per permettere loro di avviare un progetto d’impresa e fare in modo che, soprattutto durante la fase più critica, più difficile, di inizio, di start-up dell’impresa, possano essere accompagnate e assistite.

D. – Sicuramente, un progetto estremamente interessante e soprattutto di grande aiuto. Però, non possiamo non calcolare che è un progetto che si scontra con dinamiche istituzionali in Italia, che sono tra le peggiori in Europa per quanto riguarda l’accoglienza dei rifugiati…

R. – Quello che noi vorremmo fare è costruire in maniera molto pratica, concreta, condizioni di diversa cooperazione e collaborazione istituzionale. Non è tutto nero e non è tutto impossibile. Esistono operatori territoriali competenti, esistono istituzioni finanziarie di credito specializzate nel riuscire a risolvere i problemi di accesso al credito di persone considerate non "bancabili". Esistono enti locali che da anni lavorano su questi temi. Sicuramente, la situazione non è facile, non partiamo da una situazione di vantaggio ma, probabilmente, a partire da questa esperienza concreta, da questa sfida che vogliamo assumere, vogliamo misurare come sia possibile modificare comportamenti, assumere diverse responsabilità e, soprattutto, risolvere incomprensioni fondamentali.

D. – Quante persone coinvolgerà il progetto e quali sono i tempi?

R. – Il progetto mira ad identificare inizialmente un numero limitato di persone, tra 90 e 120, che saranno selezionate e che quindi accederanno ad un percorso formativo molto operativo. Non si tratta semplicemente di dare un’infarinatura, ma di portare queste persone a formulare un progetto di impresa che potrebbe essere anche di tipo cooperativo, o di inserimento in strutture esistenti. Alla fine di questo percorso formativo, si arriverà a formulare almeno 20 business-plan, e questi 20 business-plan saranno accompagnati nel momento più difficile che è quello della valutazione del loro finanziamento presso istituzioni finanziarie. Il progetto mette comunque a disposizione una dotazione di capitale economico di base che consenta quindi a queste imprese di fare leva anche tra i fondi propri e il credito richiesto.

D. – Tra gli immigrati c’è un tasso di disoccupazione spaventoso, ma c’è anche un tasso di sottoccupazione: ci sono persone che sono estremamente qualificate, ma che in Italia non riescono assolutamente a dar vita a questa loro professionalità…

R. – Non c’è dubbio. La situazione dalla quale partiamo è una situazione drammatica. Il 50% degli stranieri in Italia oggi ha problemi occupazionali e la sottoccupazione. Il non rispetto delle condizioni minime di lavoro, l’informalità, l’illegalità sono una piaga per quanto riguarda moltissimi stranieri nel nostro Paese. E’ evidente che il nostro progetto non ha l’ambizione di dare una risposta strutturale, però quello che vorremmo fare è costruire un metodo: verificare se attraverso questa strada sia possibile costruire una buona pratica da proporre poi a molti altri enti locali, a molte altre istituzioni e, in primis – direi – ai Ministeri competenti, che in questo caso sono coinvolti direttamente nel progetto: il Ministero degli Interni e il Ministero del Lavoro. Il problema è costruire buone pratiche davvero, che costruiscano quindi anche una base di riflessione per modificare le policy e quindi probabilmente per definire anche percorsi diversi di azione che coinvolgano i territori. In questo momento, da un punto di vista lavorativo è fondamentale dimostrare che gli stranieri e i rifugiati sono una risorsa per l’Italia e quindi non sono un problema.







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