2013-01-12 07:52:47

Tre anni fa il terremoto ad Haiti. La testimonianza di suor Luisa dell'Orto


Haiti ricorda oggi il terzo anniversario del terremoto del 12 gennaio 2010. Allora furono 230mila le vittime e 300mila i feriti, un milione le persone senza casa e un milione quelle che ancora necessitano di aiuti. Ieri in proposito l’Unione Europea ha sbloccato finanziamenti per 30,5 milioni di euro mentre oggi nella capitale Port-au-Prince, il presidente Michel Martelly presiederà ad una cerimonia di commemorazione. Benedetta Capelli ha raggiunto telefonicamente ad Haiti suor Luisa dell’Orto delle Piccole Sorelle del Vangelo di Charles de Foucauld, già presente sull’isola ai tempi del sisma. Ascoltiamo la sua testimonianza:RealAudioMP3

R. - Tre anni fa ero qui, nella capitale Port-au-Prince quindi ho vissuto in prima persona il terremoto. La grossa difficoltà e la grossa sofferenza era visibile soprattutto nella capitale e nei dintorni, dove il terremoto ha colpito fortemente. A tre anni di distanza, il grande cambiamento è che non ci sono più i campi di tende vicino all’aeroporto e i campi di tende nelle piazze pubbliche: c’è stato uno sforzo enorme di ritorno alla normalità, cercando di offrire a queste persone che erano nelle tende un aiuto finanziario per trovare un affitto o per poter costruire o ricostruire qualcosa su uno spazio che possedevano prima del terremoto. A parte questo, la città sembra ancora un po’ bombardata, ma si sta già preparando al carnevale. Questo per dire come la voglia di vivere del popolo haitiano continua e come la musica, intesa come espressione di vita, sia il segno di un superamento della sofferenza e della morte.

D. - Lei di cosa si occupa e come vive con le sue consorelle?

R. - Noi abitiamo in un quartiere abbastanza popolare. Abbiamo una scuola elementare, una delle prime scuole elementari del quartiere, perché non c’è ancora la presenza delle scuole statali. Dopo il terremoto, vista la situazione, abbiamo creato un piccolo centro per aiutare i bambini che - subito dopo il terremoto - abitando nelle tende, non avevano luogo di incontro e non avevano soprattutto un luogo dove giocare, fare i compiti e stare un po’ insieme; così, abbiamo creato questo centro che continua a esistere ancora oggi. E’ un’attività educativa diciamo “alternativa” rispetto alla scuola, nella quale vorremmo far passare l’idea che è possibile costruire insieme diventare solidali l’uno con l’altro, fare qualcosa di nuovo. Questo centro e le altre attività di formazione che facciamo nel quartiere vogliono, tentano - molto modestamente - di dare una mano a ricostruire i valori, a ricostruire la volontà di avere una dignità forte, di far capire che non si è maledetti nonostante le avversità vissute e che, con la Buona Notizia - con il Vangelo - Dio ama il popolo haitiano.

D. - Nei bambini qual è il segno, secondo lei, più evidente che ha lasciato il terremoto?

R. - Quando un camion passa su una strada e provoca rumori, i bambini in classe - ancora dopo tre anni - hanno paura e hanno la reazione di uscire. Quindi, questo è il primo trauma che resta: il ricordo di questo rumore che il terremoto aveva provocato, resta ancora dentro fisicamente. Questi tre anni hanno abituato i bambini ed anche le famiglie a vivere in condizioni minimali, questo “stare in modo provvisorio” sta diventando qualcosa di così normale che uno pensa che non valga la pena fare altri sforzi. Allora, su questo punto si può aiutare ed accompagnare perché si possa dire: “posso intervenire per migliorare; per migliorare il modo in cui tengo il quaderno, il modo in cui tengo la mia cartella e nel modo di pulire il cortile della scuola”. Piccoli elementi che possiamo trasmettere ai bambini ma che aiutano anche a vivere e a ritrovare energie utili alla vita sociale. La speranza c’è: è l’uscita da queste condizioni che è veramente faticosa - dopo il terremoto c’è stato il colera, ci sono stati cicloni - quindi, il Paese, in questi tre anni, ha sofferto. I prezzi sono saliti tantissimo anche per la produzione locale, per comprare le banane e le patate; tutto questo rende la vita faticosa. Ci vuole un progetto generale di ricostruzione della società: aiutare la persona a ritrovare i valori.

D. - Lei perché ha deciso di restare?

R. - Il fatto di non avere avuto la casa distrutta e che nessuno di noi sia stato ferito ha fatto sì che ci fosse subito aggregazione attorno a noi. Non c’è mai venuto in mente di lasciare, proprio perché abbiamo condiviso con la gente il momento difficile ed il momento anche di ripresa, abbiamo cercato di capire insieme come intervenire, come si poteva cercare l’acqua, come si poteva mangiare, come ci si poteva organizzare nei campi. Quindi, questa idea di partire non c’è mai stata, piuttosto è stata forte l’idea di continuare a vivere con la gente: se qualcuno della tua famiglia è malato, non lo lasci solo, è proprio lì il momento in cui uno sta più vicino alle persone. Questo popolo diventa la nostra grande famiglia, la famiglia anche dei figli di Dio ed in questa famiglia si condividono gioie e sofferenze.







All the contents on this site are copyrighted ©.